The Fall of Language in the Age of English di Minae Mizumura è un appello illuminante alla consapevolezza del ruolo delle lingue del mondo e del loro destino in un’epoca in cui l’inglese è diventato la lingua “universale” dominante.

di Minae Mizumura, “Publishers Weekly”, traduzione di Gabriella Tonoli.

 

Una volta, quando ero piccola, mia madre mi ha raccontato la storia di un soldato giapponese di stanza in un’isola del Pacifico meridionale, durante la Seconda guerra mondiale. Prima che la sua nave lasciasse il Giappone, era stato tegamiconcesso al soldato di portare con sé uno o due libri, ma alla fine, col prolungarsi della guerra, tutto quello che gli era rimasto da leggere era solo un foglio ripiegato dentro una scatola di medicine – un bugiardino – che custodiva come un talismano. Le rare volte che aveva un momento di pace, tirava fuori il bugiardino e lo leggeva. La carta aveva cominciato a consumarsi e le lettere a sfocarsi, ma lui, imperterrito, strizzava gli occhi e leggeva.

Il calore del sole lo ustionava; le strida di giganteschi uccelli tropicali lo assordavano. Era esausto, affamato e assetato. Eppure, quando il suo sguardo si posava sulle parole e sulle frasi scritte in giapponese su quel foglietto, tutto intorno a lui spariva e si sentiva riportato con la mente al suolo natio.

Non ricordo più per quale ragione mia madre mi abbia raccontato questa storia. Ricordo solo che mentre l’ascoltavo ho pensato: “Povero soldato, è proprio come me…”, ma non ho osato dirlo ad alta voce, sapendo quanto sarebbe suonato ridicolo. Come potevo paragonarmi a un soldato che muore di fame al fronte proprio io, una ragazzina nata nel dopoguerra e così fortunata da emigrare in America in un’epoca in cui il paese possedeva la metà della ricchezza mondiale?

Un paio di anni prima, a seguito del trasferimento di mio padre nella sede newyorchese di un’azienda giapponese, la mia famiglia era emigrata negli Stati Uniti, dove io e mia sorella siamo state inaspettatamente sommerse da quel genere di prelibatezze scontate per le ragazzine della borghesia americana: fette di bistecca alte due dita, prosciutto, montagne di cioccolatini Hershey’s Kisses, bottigliette di Coca-Cola. Leccornie rare in Giappone, erano lì magicamente diventate a portata di mano e di abituale consumo. Avevamo persino un’automobile.

Ma non vi era nessun benessere materiale in grado di alleviare la mia nostalgia di casa. Mi mancava il mio paese, e mi mancava la mia lingua. Per tutta l’adolescenza, dopo la scuola – dove mi sentivo terribilmente fuori posto – correvo a casa per piazzarmi sul divano e aprire un vecchio romanzo giapponese, uno dei tanti che leggevo e rileggevo. Nell’istante stesso in cui il mio sguardo si posava sulle parole e sulle frasi giapponesi della pagina, anch’io, proprio come il soldato, venivo riportata con la mente a casa, anche se il mio corpo rimaneva arenato su un suolo straniero.

Mizumura_coverLa storia del soldato giapponese e del bugiardino non mi ha mai abbandonato. Dopo una permanenza prolungata negli Stati Uniti – vent’anni, molto più di quanto avessi mai potuto immaginare – finalmente sono tornata a casa e ho cominciato anch’io a scrivere romanzi in giapponese, e finito il primo mi sono dedicata a un breve saggio sulla sfortunata vicenda del soldato. Soddisfatta, credevo di aver compreso che cosa avessimo in comune noi due: un forte desiderio di lingua giapponese. Eppure adesso, ripensandoci, che confusione avevo nella mente! Solo decenni dopo, durante la stesura di The Fall of the Language in the Age of English[1], ho cominciato a capire con maggiore chiarezza che cosa avessimo davvero in comune noi due: un forte desiderio di giapponese scritto.

La distinzione tra lingua scritta e lingua parlata non è ovvia. Quando parliamo di “inglese” o “giapponese”, neanche noi solitamente sappiamo con certezza a quale delle due ci riferiamo. Non solo le confondiamo di continuo, ma tendiamo anche a considerare la lingua scritta come una mera rappresentazione di quella parlata – ma non è così. La lingua scritta deve essere presa in esame separatamente, come qualcosa a sé stante. Ogni lingua scritta possiede una propria storia complicata eppure bellissima; e offre ai suoi lettori piaceri non eguagliabili.

Ho anche capito che il soldato giapponese molto probabilmente, nell’accampamento, insieme ai suoi commilitoni, parlava giapponese. Ma era l’atto della lettura che gli dava conforto. Anch’io, quando vivevo negli Stati Uniti, parlavo sempre in giapponese con familiari e amici. Ma parlare la lingua non mi ha mai dato piena gioia come quando la leggevo.

Gli amanti della parola scritta trovano piacere nell’atto della lettura anche se non hanno a disposizione altro che il retro di una scatola di cereali – o un bugiardino. Fortunati gli esuli che, come il soldato e come me, leggono nella propria lingua e tramite essa vengono all’istante riportati a casa attraversando migliaia di chilometri. Ancora più fortunato chi – come me – non solo legge nella propria lingua, ma grazie a essa può anche scoprire grandi opere di letteratura. Perché così come non tutte le lingue parlate hanno una lingua scritta, allo stesso modo non tutte le lingue scritte hanno una forte tradizione letteraria.

Scrivendo The Fall of Language in the Age of English è diventata chiara l’imperativa necessità di separare la lingua scritta da quella parlata per cercare di prevedere che cosa l’egemonia crescente dell’inglese potrebbe significare davvero per l’umanità. Come potrebbe essere il mondo tra cinquant’anni? E tra cento? Per quanto facessi volare la mia immaginazione, era impossibile figurarmi un mondo nel quale tutti avrebbero parlato inglese. È sicuro che le lingue continueranno a diminuire di numero, ma la gente parlerà sempre lingue diverse in angoli diversi del mondo. La domanda cruciale è: quale lingua o quali lingue leggeremo – o meglio – leggeranno i nostri figli, nipoti e pronipoti? E, di rilevanza ancora più cruciale, dando per assodato che la gente leggerà ancora nella propria lingua, quale tipo di scrittura leggerà?

Con la crescente egemonia dell’inglese, inevitabilmente sempre più studiosi in tutto il mondo leggeranno (e scriveranno) in inglese: il sapere si approfondisce e si accresce con più efficacia se tutti comunicano in una sola lingua universale. Ma gli altri tipi di scrittura? Se gli individui più intelligenti e istruiti della società diventano sempre più bilingui, chissà che genere di testi leggeranno nelle proprie lingue. Soltanto scarabocchi senza importanza che vengono letti e dimenticati il giorno dopo? O apriranno ancora libri nelle proprie lingue, aspettandosi di trovarne una tavola imbandita a cui far banchettare le emozioni, l’intelletto e lo spirito?

Sono domande alle quali non si può rispondere. Ogni Minae_Mizumuralingua scritta seguirà il suo corso; alcune sfioriranno, altre prospereranno. Eppure una varietà di lingue scritte vive è fondamentale per l’arricchimento dell’umanità, perché l’evoluzione dell’uomo è passata sempre attraverso lo scambio di beni, servizi e idee diverse. Nel corso della stesura di The Fall of Language in the Age of English è proprio questo che ho cominciato a sentire in pericolo, questa varietà, una varietà che dobbiamo avere a cuore.

 

 

 

[1] Mizumura Minae, Nihongo ga horobiru toki: Eigo no seiki no naka de, Chikuma Shobo, Tokyo 2008; The Fall of Language in the Age of English, traduzione e cura di Mari Yoshihara e Juliet Winters Carpenter, Columbia University Press, New York 2015.

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