Nato a Schaffhausen, in Svizzera, nel 1954, Ralph Dutli è saggista, poeta e traduttore, tra gli altri, di Marina Cvetaeva e dell’opera completa di Osip Emilevič Mandel’štam. Oltre a diversi saggi, a Mandel’štam ha dedicato la biografia Mio animale, mia età[1]. L’ultimo viaggio di Soutine[2], che gli è valso numerosi riconoscimenti in Germania e Svizzera, è il suo primo romanzo, nel quale racconta, con slancio poetico e attraverso la rigorosa lettura delle fonti, la vita travolgente del pittore ebreo-bielorusso Chaim Soutine. In Italia le opere di Ralph Dutli sono ancora del tutto inedite.

di Ralph Dutli, “Frankfurter Allgemeine Zeitung[3], traduzione di Chiara Caradonna e Flavia Pantanella.

 

Un romanzo è – dovete credermi anche se oggi ne parlo con serenità – intessuto anche di crisi, disperazione e insonnia. La sua genesi non è poi così spensierata, per valere qualcosa il romanzo vuole essere conquistato e sofferto. Non nasce così facilmente. E non c’è compagnia di assicurazioni che da lassù possa garantirne la riuscita, né rispondere dei danni in caso di sinistro.

Il romanzo è a volte una dura prova per l’autore, e se il lettore alla fine lo legge con piacere o forse persino con trasporto, la prova è superata a metà. L’altra metà la mostrerà il futuro, ed è impietoso, che nessun autore si faccia illusioni. Il romanzo è una scuola di scetticismo.

 

Cuore, polso e cervello

Cosa fa il romanzo con noi? Ecco qualche pensiero sul potere silenzioso ma nient’affatto innocuo che il romanzo esercita su di noi, un potere segreto al quale è difficile sottrarsi. Il romanzo è allo stesso tempo un formato maneggevole e una rete estesa che raccoglie con energia le nostre facoltà mentali e impressioni, la nostra memoria volubile, il nostro fragile cuore, polso e cervello, la nostra vita vissuta fin qui, con tanto di cadute, rinnovato coraggio e voli ad alta quota. È un genere astuto e particolarmente insidioso.

L’autore crede a lungo di avere in pugno il proprio romanzo. Poi gradualmente il romanzo acquista su di noi quel potere sinistro, e tutto a un tratto ci accorgiamo che è lui ad avere in pugno noi. In fin dei conti siamo – in ogni momento di scrittura ispirata, in ogni crisi – anima e corpo, irrimediabilmente alla sua mercé.

Esiste una gestazione romanzesca che, se necessario, può durare un decennio. Ma non è la regola, ci sono senz’altro gravidanze variabili; proprio adesso, mentre scrivo un nuovo romanzo, sento di vivere una gestazione più breve, ma non mi azzardo a stabilirne la durata, perché il romanzo non lo gradisce affatto e si può vendicare per le inammissibili scadenze che gli vengono imposte.

Non c’è nessuna regola, nessuna ricetta. Il romanzo le rifiuta continuamente. Fili che si intrecciano dapprima in modo blando, poi sempre più stretto. Un taccuino di paure, ossessioni ed estasi, di piccoli colorati entusiasmi e ariose divagazioni. Alla fine si compone da sé con prepotenza, non curandosi più dell’autore. Sa infatti di appartenere già per metà al lettore e alla sua capacità di riflettere, e quindi diventa sfacciato e si appresta a congedare l’autore.

 

dutli_suotineIl suo posto è ai margini del centro del mondo

Quando cominciai a lavorare al libro che poi è diventato L’ultimo viaggio di Soutine all’inizio volevo solo raccontare una storia, la storia di uno dei miei artisti preferiti, il pittore ebreo-bielorusso Chaim Soutine, che da Minsk e Vilnius nel 1913 approda a Parigi, la capitale mondiale della pittura.

 

È ancora una volta al centro del mondo, ma ai suoi margini… l’uomo silenzioso sente di più perché la sua voce non deve coprire quella degli altri. Il silenzioso è tutto orecchie. Il suo posto è ai margini del centro del mondo[4].

 

Ma non si tratta solo di questa sua storia. All’improvviso, con l’avanzare della scrittura, il romanzo pretendeva di più, voleva diventare anche un’allegoria della vita umana, una sorta di parabola. Ed ecco che il nome del pittore venne generosamente in suo aiuto: nella lingua della Bibbia “Chaim” vuol dire “vita”, e volendo ridurre la vicenda del romanzo a una formula bisognerebbe dire: “nascosta in un carro funebre la vita avanza verso la sua ultima operazione”. Il romanzo inizia quindi come un paradosso. Può anche darsi che la realtà abbia avuto l’idea di nascondere un essere vivente in un carro funebre affinché possa essere sottoposto all’operazione che gli promette la salvezza; questo episodio però non è documentato, è tutt’al più una diceria.

Il romanzo è uno strumento di speculazione. Nel mio romanzo l’ultima compagna di Soutine, Marie-Berthe Aurenche (ex moglie del pittore tedesco Max Ernst), compare con il nomignolo “Ma-Be”. Non perché qualche contemporaneo abbia riportato che usassero chiamarla con questo vezzeggiativo. Probabilmente nessuno l’ha mai chiamata così. È un invito a leggere il diminutivo “Ma-Be” in inglese, quindi “may be”, “forse”, come una sigla della speculazione: potrebbe essere andata così, forse però è andata in modo del tutto diverso.

Albert Matignon_Morphine

Albert Matignon, Morphine, 1905.

E poi nel romanzo hanno un ruolo fondamentale anche il dolore e un oppiaceo ricavato dal succo del papavero da oppio Papaver somniferum. Nel capitolo intitolato Morfina presento il suo scopritore, Sertürner, l’apprendista farmacista tedesco di Paderborn. Le parole “succo d’oppio di Sertürner” compaiono diverse volte. Una volta avevo sbagliato a scrivere, lo ricordo bene, e avevo messo “scritto d’oppio di Sertürner” invece di succo; stavo per correggerlo, ma poi saggiamente lo lasciai. Del resto l’inconscio partecipa alla scrittura in modo tutt’altro che sciocco.

La letteratura è una sorta di sognante scrittura oppiacea, un particolare succo d’oppio dall’effetto allucinatorio che un tempo aveva il color dell’inchiostro; anch’essa può alleviare il dolore, almeno per un po’. La scrittura è una sostanza che con la parola placa il dolore e letteralmente lo allevia. Fintanto che si continueranno a leggere e scrivere romanzi, nel migliore dei casi si terrà alla larga il dolore. Ogni romanzo serba in sogno il ricordo di Sherazade, che resta in vita finché è capace di narrare.

 

Divino è l’uomo quando sogna

Il romanzo è dunque anche un modo di temporeggiare per creare tensione. Non certo un superamento della nostra mortalità (alla quale non c’è comunque rimedio), ma una proroga allo spegnersi della nostra anima, un avvampare della coscienza di fronte all’impotenza dei giorni. Ogni romanzo sa più di quanto l’autore possa immaginare, di quanto si sia mai sognato.

 

L’effetto non è sempre prevedibile. Molte volte non saprà dov’è, cos’è, che ora è. I suoi ricordi saranno inesatti, offuscata la coscienza, logorati i sensi, soffrirà di allucinazioni disordinate.

 

Se dieci anni fa qualcuno mi avesse detto che, un giorno, per scrivere un romanzo avrei dovuto fare delle ricerche sulla storia della terapia dell’ulcera gastrica o sul decorso dei deliri da morfina, lo avrei preso per un cattivo profeta o un buffone. Il romanzo è anche una bussola, ci conduce dove non siamo mai stati prima, in territori sconosciuti.

Nella clinica tirata a lucido del “paradiso bianco” tutto ciò che accade al pittore è dominato da una logica onirica che inevitabilmente crea i propri avvenimenti e le proprie visioni. Nello scrivere mi sono lasciato guidare sempre più docilmente da questa logica.

La qualità allucinatoria o fantasmagorica delle scene che si svolgono nella clinica costituisce forse perfino il fulcro del mio romanzo, ed è lì che sono disseminate tutte le chiavi di lettura che, in quanto autore, ho perso per strada, o che mi sono sfuggite di mano, non senza beneficio. Certo, la cronologia è dissestata, ma il sogno trionfa. Una delle mie frasi preferite tratte dall’Iperione di Hölderlin è: “Divino è l’uomo quando sogna, un mendicante quando pensa; e quando l’entusiasmo è svanito, rimane lì come un figlio degenere”[5].

A proposito di Dio. Il fatto che là, nel “paradiso bianco”, il pittore incontri un misterioso “Dio vestito di bianco”, il dottor Bog (“Bog in russo significa “Dio”), trasforma il romanzo anche in un trattato teologico che indirettamente pone la questione della teodicea: perché Dio tollera così tanto dolore e miseria se, come si dice, è onnipotente e onnisciente?

 

Documento e delirio

Il romanzo è dunque anche una bizzarra combinazione di teologia e sogno. Non volevo però scrivere un romanzo puramente onirico. È stata invece proprio la contiguità di documento e delirio ad affascinarmi. Il sogno di per sé non mi sarebbe bastato: era necessario ancorarlo a un’epoca, per quanto terribile e minacciosa essa fosse. Speravo che dall’attrito tra documento e delirio scaturisse una scintilla di poesia.

Il romanzo è un rischio, fa una doppia acrobazia. Da una parte ho voluto evocare la vita di un uomo emarginato, silenzioso e difficile, dall’altra ho tentato di introdurre nel romanzo la vita umana in generale, nella sua complessità, con il dolore e la gioia, l’amore, la separazione e la morte – insomma, i cosiddetti temi eterni della letteratura. Non volevo creare una figura con cui autore e lettore potessero comodamente e facilmente identificarsi; al tempo stesso però il romanzo doveva trattare della vita del lettore e della caotica vita dell’autore.

E poi la seconda acrobazia: il romanzo descrive un “ultimo viaggio”, un viaggio verso la morte, dunque. Non volevo però scrivere un libro cupo, opprimente. Doveva specchiarvisi la pienezza della vita, ricca com’è di colori e passioni. Certo, spesso la sventura è all’opera, eppure la felicità vi si immischia più di una volta. Ad esempio nel capitolo Mademoiselle Garde e la futile felicità.

 

Cerca l’utile felicità nei suoi ricordi. Felicità utile, felicità futile – è tutt’uno. Ma c’era, e ha lasciato dietro di sé una traccia. Era questo che contava.

 

Una sola lettera, un solo suono, ed ecco che la felicità si ribalta. La felicità è appesa a un filo, un soffio separa l’“utile” dal “futile”. Il romanzo è il grato scrigno di questo filo sottile.

È però anche uno strumento che permette di volare, e non solo durante lo strano volo dell’anima sopra il cimitero di Montparnasse, alla fine del libro. Lì si nasconde una citazione tratta da una poesia del premio Nobel Iosif Brodskij, che ho tradotto anni fa dal russo per una raccolta pubblicata dalla casa editrice Hanser: “Di’, anima… dimmi che aspetto aveva mai la vita da lassù, vista con gli occhi di un uccello…”.

Il mio romanzo, al di là del pretesto di scrivere un’oscura biografia d’artista, è anche questa prospettiva a volo d’uccello sulla vita umana. Innanzitutto però vuole essere un libro letterario, “nient’altro che letteratura” (questo niente così magico della letteratura), per così dire, composto a passo lirico-ritmico-musicale, intessuto di rimandi che spaziano dal racconto biblico di Giobbe a Hofmannsthal, da Dante a Nabokov, da Rimbaud e Brodskij fino al Faust di Goethe.

Il romanzo è un gioco letterario, è vero; ma è un gioco che tratta dell’amara gravità della vita. Un gioco che favorisce la compassione e la comprensione. Qualche tempo fa ho letto su un giornale un articolo dal titolo Collegamenti romanzeschi (“Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 7 gennaio 2014) che mi ha parecchio stupito.

Alla Emory University di Atlanta hanno cercato di ricostruire con degli esperimenti i percorsi neuronali innescati dalla lettura di un romanzo. A un campione di uomini e donne è stato fatto leggere un romanzo, e grazie a uno scanner cerebrale gli studiosi hanno indagato gli effetti di questa curiosa attività. Incredibile a dirsi: questo viaggio attraverso i territori segreti del nostro cervello ha prodotto risultati sorprendenti. La lettura modifica l’architettura cerebrale, crea nuovi collegamenti nervosi tra diverse aree del cervello. La nostra memoria empatica soffre insieme alle figure del romanzo.

Già dopo il primo giorno di lettura si vanno gradualmente formando nuove vie nervose nella circonvoluzione cerebrale che porta il nome di Gyrus angularis sinistro, un importante centro associativo e linguistico. La stessa cosa avviene nella parte posteriore del lobo temporale. Con il procedere della lettura aumentano le reti nervose nei centri somatosensoriali, preposti alla percezione dei sentimenti e della paura, situati su entrambi i lati della corteccia cerebrale, nel punto più alto sotto il cranio. È la stessa area che si attiva quando vengono utilizzate le metafore, quando la lingua si fa viva e vibrante.

Chi l’avrebbe mai immaginato: impariamo a patire – a con-patire. E dove? Nel romanzo e attraverso di lui. Il romanzo è dunque anche una scuola di compassione. Impariamo a compatire, a immedesimarci negli altri. Nelle paradossali tortuosità del nostro cervello ci scopriamo ringiovaniti mentre diventiamo più maturi.

 

Mortalità e magico ringiovanimento

Il romanzo cambia la nostra vita, e vorrei qui definire il legame tra autore e lettore come un’unione fatale. Il romanzo parla della nostra mortalità, ma ci rende, magicamente, più giovani.

La cosa più buffa che mi è capitata nel contesto di questo mio romanzo è di essere stato definito un “debuttante” da giornalisti e intervistatori, di sentir chiamare il mio libro un “debutto”. Non ci tenevo particolarmente a ripetere ogni volta che, nel corso della mia vita, ho pubblicato ormai più di trenta libri. Una volta ho detto solo che mi sento poco adatto nei panni della signorina che debutta in società.

Ma il romanzo sembra causare una sorta di tabula rasa. Poesie, saggi, la biografia di un poeta, audiolibri, due piccole storie culturali dell’ulivo e dell’ape mellifera: sembra che questa grande ipnosi – o, per meglio dire, questa follia chiamata romanzo – spazzi via ogni altra cosa.

ralph_dutliIl romanzo è stato come una cura per ringiovanire; eccomi tornato all’inizio, come nel gioco dell’oca, dove senza accorgersene ci si ritrova di nuovo sulla casella di partenza. E pensare che questo romanzo ha tratto profitto da ognuno dei libri che ho scritto in qualità di poeta, saggista, biografo o traduttore di poesia russa. Ogni libro ha fecondato e reso necessario l’altro.

Girare per il paese mascherato da debuttante è stata un’esperienza rinfrescante. Come per magia o per un folle gioco di prestigio sono tornato giovane tutt’a un tratto, come se mi fosse stato regalato ancora una volta il primo orologio da polso, o avessi appena ricevuto la prima comunione. L’astuto genere del romanzo mi ha donato una nuova, paradossale innocenza. Non c’è dubbio: il romanzo è un prodotto pieno di insidie.

 

 

 

[1] Ralph Dutli, Mandelstam. Meine Zeit, mein Tier, Ammann Verlag, Zurigo 2003.

[2] Ralph Dutli, Soutines letzte Fahrt, Wallstein Verlag, Gottinga 2013.

[3] Del 17 maggio 2014, n° 114.

[4] Questa come le successive citazioni sono tratte da L’ultimo viaggio di Soutine e compaiono in Italia per la prima volta in traduzione.

[5] Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, traduzione e cura di Laura Balbiani, Bompiani, Milano 2015.

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