Riff da San Diego su estremismo, identità laica yiddish, Stalin, galateo transgender e talk poem.

di Jake Marmer, “Tablet Magazine”, traduzione di Valentina Zaffagnini.

Sono gli anni Settanta, il poeta e pensatore David Antin entra nell’auditorium del Pomona College, nel sud della California, per tenere un reading. Questa volta però non ha il tipico armamentario che i poeti portano con sé in circostanze del genere: libri con le orecchie alle pagine, manoscritti, taccuini, fogli sparsi o qualsiasi altro testo dal quale leggere. Invece, si schiarisce la voce e comincia a parlare – a improvvisare, tessendo una trama estemporanea di idee e immagini, aneddoti e intuizioni. Ascoltandone la registrazione durante il viaggio di ritorno a casa, la moglie del poeta, la regista e performance artist Elly Antin, esclama: “Questo è un poema”.

How Long is The Present, pubblicato lo scorso mese [gennaio ’15 per chi legge, ndr] dalla University of New Mexico Press, accoglie una selezione delle performance, conosciute con il nome di talk poem [poesie parlate, ndt], eseguite da Antin tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta. Il volume, corredato da un’ampia introduzione di Stephen Fredman, comprende anche una recente intervista ad Antin, il quale ha compiuto ottantatré anni questa settima [l’1 febbraio, ndr].

your definition of the real is more like a hope about things that should prove to be real        the real is like a construction       something that builds piece by piece             and then it falls on you           or you move into it.

 

La vostra definizione di ciò che è reale è più una speranza su cose che dovrebbero dimostrarsi reali  il reale è una costruzione        qualcosa che cresce                pezzo dopo pezzo       per poi caderti addosso              o spingerti al suo interno.

 

Così recita uno dei suoi talk poem più noti, allo stesso tempo componimento e manifesto poetico. La particolare formattazione del testo segue la cadenza del discorso di Antin: il ritmo con il quale misura le parole mentre si ferma a riflettere, per poi dichiarare le proprie opinioni con tempi degni di un attore o di un comico. L’idea di poesia di Antin – così lontana dalla versificazione tradizionale, con le proprie regole metriche, la suddivisione in strofe, i giochi di parole, le assonanze e le rime – non è semplicemente unica. È un genere praticabile da un solo professionista. Il convergere di un vasto sapere e di un umorismo tagliente, unito all’audacia dell’improvvisazione, non è rappresentativo di un’idea o di una tendenza, bensì dell’essenza profonda di Antin. C’è chi colloca Antin nella secolare tradizione dei cabarettisti ebrei, degli oratori dell’antichità, dei filosofi postmoderni – eppure, in qualche modo, lui resta in primo luogo un poeta. È come se appartenesse a un’epoca, o a una mentalità, molto diversa, che si discosta dai mondi tradizionali, ma anche da quelli sperimentali, della poesia americana.

david_antin

David Antin

L’improvvisazione è un universo elettrizzante e misterioso. Coloro i quali la amano e la praticano conoscono bene la sua folgorazione repentina: il fremito dell’intuizione, che rivela come la performance non sia basata sull’esercizio mnemonico affinato nelle lunghe prove, ma sulla creazione estemporanea, che prende forma davanti agli occhi del pubblico. Ansioso di incontrare Antin, mi sono dato l’obiettivo di andare oltre la consueta intervista – il classico botta e risposta che potrebbe, o forse no, avvicinarmi alla comprensione della tecnica dell’artista. Aspiro invece a partecipare a un’esperienza più ampia, che mi permetta di cogliere l’essenza dell’improvvisazione, e dunque della poesia, così per come le intende uno dei suoi massimi esponenti contemporanei.

Percorro la Statale 5 diretto all’abitazione degli Antin, a mezz’ora di macchina dall’aeroporto di San Diego, e dopo un paio di deviazioni mi trovo a costeggiare l’oceano: un artista d’avanguardia non potrebbe vivere in una città più improbabile, mi dico. Una pigra distesa di navi ormeggiate, ombrelloni sulla sabbia di dicembre, gente di mezz’età in pantaloncini, comodamente seduta ai caffè del lungomare, i capelli impeccabili schiariti dal sole: c’è qualcosa di paradisiaco, di esageratamente rassicurante, in San Diego. Il mio navigatore ha difficoltà a trovare l’indirizzo esatto, così seguo le indicazioni che Antin mi ha mandato via email in previsione del nostro incontro – sono le indicazioni dal punto in cui la strada finisce: “Svolti di nuovo a sinistra e prosegua per novanta iarde [82.296 metri, ndt]. Svolti a sinistra per imboccare il nostro vialetto e parcheggi. Prenda il sentiero in mattoni che conduce fino a casa”.

Come ha osservato la poetessa e studiosa Maria Damon, il segreto del fascino di Antin sta nella sua capacità di muoversi liberamente tra riferimenti culturali colti e popolari – di passare da astrazioni complesse ad aneddoti personali esilaranti, affrontando gli interrogativi fondamentali della vita in modo raffinato e al tempo stesso non pretenzioso, con un tono informale, colloquiale, reso ancor più vivace dal chiaro accento newyorchese. In uno dei talk poem pubblicati nella raccolta How Long Is the Present, Antin parla in terza persona del suo metodo e invita il pubblico a entrare in un luogo della mente, una riserva di caccia delle idee:

…the one who comes there and has been thinking of talking is a kind of agent provocateur    he is the one who comes bringing troubles and has been preparing to unpack his pandoras box of them and leave them with you for your          entertainment               and most people wishing to be entertained or willing to be     in the way that ideas are entertained or entertaining.

 

…chi viene con l’intenzione di parlare è una specie di agente provocatore                 viene a portare guai preparandosi a svuotare il vaso di Pandora del suo contenuto per lasciarlo a voi per il vostro  intrattenimento     e per lasciare alla maggior parte delle persone il desiderio di essere intrattenute o la volontà di esserlo                      nel modo in cui un’idea ci trattiene o ci  intrattiene.

Con uno dei suoi caratteristici giochi di parole, David Antin ci dice che l’intrattenimento, a suo giudizio, non è l’esperienza elettrizzante in stile hollywoodiano. Quando ci soffermiamo su un’idea – ci intratteniamo, appunto – diamo origine a una possibilità: ci dilettiamo con una realtà che potrebbe o no affiorare in superficie. Essere intrattenuti da Antin significa intraprendere un viaggio interdisciplinare, guardare il poeta mentre riflette davanti al suo pubblico e ragiona su idee che lo affascinano – che lo “disturbano” – e che spesso hanno a che fare con la natura intrinseca del pensiero, del linguaggio e, in senso più ampio, dell’arte.

Parcheggio l’auto e seguo il “sentiero di mattoni” che conduce dagli Antin; sono pronto a tutto, ma non a quello che vedo: una giovane donna minuta, seminuda, sdraiata al sole. È una statua, naturalmente, ma impiego un minuto per rendermene conto e per cogliere il panorama mozzafiato delle colline circostanti. Gli Antin si sono stabiliti a San Diego quando l’Università della California ha assegnato al poeta la cattedra di arti visive, nonché il posto di curatore  di una galleria d’arte locale. Come dice lui stesso a proposito della sua casa: “È da parecchio tempo che proteggiamo questa proprietà”.

Potremmo dire che la performance del giorno ha inizio subito dopo aver bussato alla porta e aver stretto la mano del poeta. Antin mi mostra i terreni che circondano la casa – il giardino pieno di alberi bassi e cactus in fiore, i sentieri ben tenuti, che si sovrappongono tra loro. David mi conduce nello studio della moglie, un ambiente arioso, lungo e stretto, illuminato da ampie vetrate, sospeso tra la casa e una collinetta adiacente. Elly, David e io cominciamo a parlare e, in un lasso di tempo che mi sembra brevissimo, mentre ci trasferiamo dallo studio alla sala da pranzo, tocchiamo parecchi argomenti: l’estremismo, i paladini dell’identità laica yiddish, Stalin, la natura intrinsecamente ingannevole del linguaggio, il Medio Oriente, il femminismo, il galateo transgender e naturalmente le nostre storie personali.

Antin possiede il dono della conversazione, nel corso della quale continua a esaminare, attraverso la lente della consapevolezza di sé, ciò che va via via dicendo, valutando se credere alle proprie parole e opinioni nell’istante in cui esse si manifestano. Più tardi, quando ci accomodiamo per l’intervista, mi chiarisce il concetto:

What do I mean? It’s not I who does the meaning. It’s as if the meaning comes of the culture       speaks through me        I feel myself in awareness of cultural reverberations of every word           And I’m doubtful of what I’m saying      My doubt is what makes it improvisational.

 

Cosa intendo? Non sono io a fare il significato. È come se il significato venisse dalla cultura parlasse attraverso di me             Mi sento consapevole dei riverberi culturali di ogni parola                E dubito di ciò che dico             È il mio dubbio a farne un’improvvisazione.

Pensando all’improvvisazione potrebbero venirci in mente certe invettive dal sapore profetico, il dilagare estatico di immagini e visioni in associazione libera dei poeti della Beat Generation degli anni ’50 e ’60 – o i febbrili assoli jazz che si libravano in volo nello stesso periodo. Ma non è il caso di Antin: la sua chiave di accesso all’improvvisazione è invece proprio la nemesi e l’antagonista dell’estasi: il dubbio.

La particolare natura del dubbio di Antin è in qualche modo legata al fatto che – secondo quanto dice lui stesso parlando del collega e amico Jerome Rothenberg – “non rinuncia mai a quella simbolica alzata di spalle che è tipica degli ebrei”. L’alzata di spalle come tropo filosofico è una tendenza che possiamo far risalire al Talmud. Da un trattato all’altro, i rabbini eludevano le risposte per prolungare la conversazione, lasciando le porte aperte, anziché chiuderle a doppia mandata con delle conclusioni.

La polemica e la sfida contro le norme stabilite sono parte del suo fascino. Come ha più volte ripetuto, Antin ha scelto di improvvisare perché non intendeva propinare pensieri predigeriti, conclusi e “morti”, bensì offrire idee nuove, vive, e nel momento stesso in cui vedevano la luce. Nel talk poem intitolato What it means to be avant-garde, Antin racconta come Harold Bloom, probabilmente il critico letterario americano più conosciuto e più schietto che abbia mai prodotto l’Università di Yale, andò su tutte le furie quando un collega, durante una conferenza, prese a parlare del suo lavoro poetico. Il modello della poesia professionista – quello che Harold Bloom approva e che ci si aspetta dunque da un poeta accademico  – è levigato e senza sbavature, ed è esattamente il tipo di esperienza contro la quale Antin si oppone con il proprio lavoro. Spiega in un altro dei suoi talk poem:

Everyone knows there is a professional baseball player and an amateur         but you don’t say theres a professional lover and look      approvingly at that person      who may be a gigolo or a courtesan   and you don’t turn around and say scornfully of some passing lady who may be somebodys lover    “shes an amateur”            because in love you dont want to be a professional.

 

Tutti sappiamo che esistono giocatori di baseball professionisti e dilettanti                 ma di un amante non diciamo che è un professionista e guardiamo   con approvazione quella persona           che potrebbe essere un gigolò o una cortigiana         e non ci giriamo dall’altra parte e diciamo sprezzanti di una signora che sta passando che potrebbe essere l’amante di qualcuno    “è una dilettante”        perché in amore nessuno vuole essere un professionista.

Considerata la natura personale, vocazionale del lavoro di Antin, non sorprende che molte sue performance siano intrise di aneddoti e racconti. Una storia che tuttora ricordo ha per protagonista Wolf Kitzes, illustre antenato del poeta, rabbino chassidico e leggendario discepolo del Ba’al Shem Tov. Nell’interpretazione di Antin del racconto – basata sulla versione di Martin Buber della leggenda popolare –, Kitzes, in missione per conto del Ba’al Shem, dopo un lungo viaggio si ritrova in un palazzo diverso da tutti gli altri palazzi del mondo. È una dimora del Divino e la voce disincarnata chiede al rabbino: “Come sta il mio popolo?”. Nella versione di Antin, Kitzes risponde così: “Come dovrebbe stare?”.

Mentre ricordiamo il racconto di Wolf, pongo ad Antin la stessa domanda: “Come stanno gli ebrei?”. Mi risponde così:

I think Jews always managed to do as well as it was possible because it’s an intellectual tradition         people are looking for something better than victory   in some sense they seem to be dedicated to understanding      or something like it  there’s a form of humanity that’s very rich and seems to emerge from Jewish intellectualism         I think it is about being very hopeful          that greater intelligence is available from the tradition of the Torah         the questions are about silly things often, the structure of the arguments wonderfully entertaining         some are brilliantly handled           so it’s a kind of a richness of discourse           and a triumph of vision in which discourse stands for a great deal.

 

Penso che gli ebrei siano sempre riusciti a fare del loro meglio perché la loro è una tradizione intellettuale   le persone cercano qualcosa di meglio della vittoria in un certo senso sembrano consacrate alla comprensione    o a qualcosa di simile c’è una forma di umanità molto ricca e sembra emergere dall’intellettualismo ebraico      Penso che la sua essenza sia il credere con tutte le proprie forze       che alla base della tradizione della Torah ci sia un’intelligenza più grande       i quesiti riguardano spesso cose frivole, la struttura delle dissertazioni è meravigliosamente coinvolgente        alcune sono affrontate in modo brillante   quindi si tratta di una sorta di ricchezza del discorso             e del trionfo di una visione in cui il discorso ha un ruolo importantissimo.

 

Poeta e performer, Jake Marmer è anche l’autore di Jazz Talmud. Hermenutic Stomp. Il suo disco, in cui si mescolano jazz, musica klezmer e poesia, è uscito nel 2013 per l’etichetta Blue Thread Music.

This article is reprinted from “Tablet Magazine”, at tabletmag.com, the online magazine of Jewish news, ideas, and culture.

leggi offline «Improvvisazioni talmudiche: incontro con il poeta David Antin»