Intervista a Géza Morcsányi, per vent’anni editore di riferimento della migliore produzione letteraria ungherese.
di Péter Hamvay, “Magyar Narancs”, traduzione di Andrea Rényi.
Géza Morcsányi, nato nel 1952, si laurea in economia e commercio e coltiva la passione per la drammaturgia. Per qualche anno lavora come redattore editoriale e collabora con alcuni periodici, dopodiché, su proposta dello scrittore Péter Esterházy, gli viene affidata la direzione editoriale della casa editrice Magvető, che sotto la sua guida viene insignita per cinque volte del premio Casa editrice dell’anno, istituito dall’Associazione degli editori e dei distributori ungheresi.
Magvető è la casa editrice di Ádám Bodor, Péter Esterházy, László Krasznahorkai, Imre Kertész, Lajos Parti Nagy, Pál Zavada, László F. Földényi, per menzionare alcuni dei nomi più importanti del panorama letterario ungherese, e traduce un gran numero di autori stranieri come Gabriel García Márquez, Thomas Pynchon e Ljudmila Ulitckaja.

© foto: Adrián Zoltán – Origo
Nel frattempo, Morcsányi ha continuato la sua attività di drammaturgo, oltre a essere anche un prolifico traduttore del teatro russo. Nel 2015 ha lasciato la Magvető per diventare direttore generale del gruppo editoriale Líra, che comprende, oltre alla stessa Magvető, anche i marchi Atheneum, Corvina, Rózsavölgyi, Manó Könyvek e General Press. In questa intervista, partendo dal racconto di quel delicato momento di transizione nella sua vita editoriale, Morcsányi parla della sua precisa idea di editoria e traccia uno spaccato dell’attuale situazione editoriale ungherese.
Come è stato congedarsi da quella che per vent’anni è stata la sua casa editrice?
Ho incontrato tutti gli autori di persona o li ho salutati al telefono, e sia in quei giorni che in quelli successivi ho ricevuto tante manifestazioni di affetto che, se avessi potuto immaginarlo, me ne sarei andato molto prima in pensione. Ma ovviamente sto scherzando.
Non si può certo dire che lei sia un pensionato inattivo, soprattutto perché dopo aver lasciato Magvető è diventato il direttore editoriale del gruppo Líra.
Volevo restare vicino alla Magvető e il proprietario del gruppo Líra, Tamás Kolosi, mi ha offerto questo ruolo. In sostanza continuo a leggere moltissimo alla ricerca di opere adatte alla Magvető e alle altre case editrici del gruppo. Negli ultimi tempi avevo avuto sempre meno tempo per farlo. E sto portando avanti un lavoro anche di uniformazione delle procedure del gruppo, per esempio nel campo dei contratti e del marketing.
Aveva deciso autonomamente di ritirarsi?
Sì, è stata una decisione presa in completa autonomia. Da qualche tempo avvertivo una certa irritazione. Non con i colleghi né con gli autori, ma rispetto al mio ruolo decisionale. Ho pensato di dovermi allontanare dagli affari “aziendali” di routine. D’altro canto ero abituato a prendere le decisioni in base alla mia scala di valori, al mio giudizio e ai miei gusti, e negli ultimi tempi queste scelte erano diventate un po’ “difficili”.
Faccio fatica a credere che avesse perso fiducia del suo giudizio.
Non mi fidavo più del mio gusto e non ero sicuro del grado di efficienza delle mie decisioni e della mia capacità di valutazione delle circostanze.
L’editoria era cambiata al punto che non era più in grado di reagire?
Credo ancora nel ruolo speciale e importante della letteratura nell’editoria, anche se dal punto di vista economico essa rappresenta ormai un segmento sempre più ristretto.
È diminuita l’influenza sociale della letteratura. Per quale motivo, secondo lei?
Le cause sono numerose: la fine di una sorta di illuminismo, una nuova crisi del multiculturalismo, da noi, nell’Europa dell’Est la fine del culto della cultura popolare che era eredità del socialismo, la rivoluzione tecnologica che ha reso la cultura contemporaneamente più democratica e allo stesso tempo più profana. Questa concatenazione di cause ha prodotto un cambio di modello che naturalmente non sta trasformando solo la nostra cultura. L’importante ruolo dell’intellighenzia nella gerarchia sociale nato con quell’illuminismo oggi sta tramontando. Non so se si tratti di declino, oppure di un cambiamento che le generazioni al tramonto di solito non riescono a comprendere e ne parlano amaramente, come lo definivano le due puttane lascive nel musical Chicago: “No more class” (Non c’è più eleganza).
La letteratura era eleganza?
Il divertimento, l’approvvigionamento di informazioni e la creazione della propria immagine oggi si abbeverano ad altre fonti. Le opere letterarie che un tempo erano capaci di instillare in intere generazioni l’idea del suicidio o che hanno liberato il pensiero femminile non esercitano più presa. Oggi non ci serviamo più di loro per trarre il viatico necessario per la vita, ma ci rivolgiamo a poche frasi pubblicate su internet e a programmi d’intrattenimento. Nelle attuali circostanze probabilmente non funziona più quel raffinato modello editoriale che con una certa dose di fortuna ero riuscito a creare, e il quale esprimeva l’esigenza di un certo elitarismo.
Con gli occhi di oggi, gli anni Novanta ci appaiono come un’epoca dorata, ma neppure allora era scontato che senza sostegno pubblico Magvető sarebbe riuscita a mantenere la sua posizione di casa editrice di riferimento della letteratura contemporanea ungherese.
Fin dal principio abbiamo lavorato non solo sulla qualità, ma anche sulla redditività. A mio parere la concomitanza di questi due elementi è stata la chiave del successo.
Anche se diversi editori dicono che è stato facile per voi con il gruppo Líra alle spalle, con un fatturato di 4-5 miliardi di fiorini [tra i 13 e i 16 milioni di euro].
È un aspetto secondario. Negli ultimi due decenni ci sono stati controesempi di qualità come Kalligram, Agave e anche altri. E comunque non si può tenere in vita una casa editrice degna di questo nome pretendendo che sia il proprietario a coprire le spese per poter pubblicare dei bei libri. Magvető ha sempre vissuto degli utili prodotti dai suoi autori.
Siete riusciti ad arruolare gran parte dei nomi più celebri della letteratura ungherese contemporanea. Come li ha conquistati?
Spero che il motivo principale per aver scelto Magvető sia stato la nostra qualità. E poi la stabilità. Abbiamo potuto assicurare loro delle buone entrate; non splendide, ma sempre cifre sulle quali poter contare. D’altro canto secondo me una casa editrice deve voler bene ai suoi autori e alle loro opere più o meno come se fossero i suoi figli. E gli autori devono sentire quest’affetto. Anche nelle piccole cose. Una leggenda urbana narra che uno dei nostri libri di maggior successo è finito da noi perché il precedente editore non ha tenuto conto del parere sfavorevole dell’autore quando si è trattato di scegliere la copertina. Sicuramente nemmeno da noi erano tutti felicissimi delle copertine, per dirne una, ma ci siamo sempre impegnati in questa direzione. D’altronde noi siamo qui per gli autori, e non viceversa.
Dove sono finiti i lettori di narrativa?
Probabilmente non sono scomparsi, perché la spesa in libri non è cambiata in Ungheria, e secondo uno studio americano i giovani oggi leggono e scrivono persino di più delle generazioni precedenti – se includiamo anche gli sms, i blog e i testi online. A quanto pare è così anche da noi. In ogni caso è diminuita la percentuale della letteratura di qualità, mentre si consumano più letteratura commerciale e tante varietà di opere non-fiction che oggi vengono confezionate in modo sempre più professionale, allontanandole così da quel carattere di bassa qualità e cattivo gusto che le contraddistingueva negli anni novanta. Questi libri tolgono facilmente spazio alla letteratura di un certo livello.
Quindi Esterházy è stato rimpiazzato da Coelho?
Non è questo quello che conta, ma sicuramente ci sono molti lettori che prima compravano Esterházy solo per snobismo e oggi non lo fanno più. Spendono per comprare libri che meglio si adattano ai loro gusti.
Che cosa si può fare per arginare questo fenomeno?
Nulla, oggi così gira il mondo. Se ci fosse una risposta salvifica e se io ne fossi a conoscenza, in questo momento staremmo parlando ancora negli uffici di Magvető. Ora ripongo la mia fiducia in Krisztián Nyáry [direttore editoriale dal 2015, ntd] e in Anna Dávid [redattrice capo, ndt]. Sono convinto che si dedicheranno agli autori con la necessaria empatia e dedizione intellettuale, e troveranno delle soluzioni per evitare che gli autori debbano fare i saltimbanchi per guadagnarsi l’attenzione dei lettori.
Krisztián Nyáry sia nelle sue opere che attraverso la sua figura di intellettuale ha dimostrato di aver capito i tempi in cui viviamo. Ha scelto da sé i suoi successori?
In pieno accordo con i proprietari. Anna Dávid aveva già lavorato da Magvető, ci eravamo separati per motivi economici e per divergenze sul mio modo di lavorare, ma l’affetto reciproco era rimasto intatto. È una professionista dell’editoria dotata di autonomia ed esperienza di lungo corso. Ho conosciuto invece Krisztián Nyáry grazie a un magnifico saggio breve sulla tormentata storia dell’editoria ungherese, scritto per un’antologia che avevo curato. Ha mostrato una preparazione impressionante e anche una notevole capacità di coniugare la scrittura con la comprensione delle logiche di mercato.
Come ha costruito i suoi autori?
In nessun modo. Il concetto stesso e la mentalità dalla quale deriva l’idea di dover “costruire” un autore mi fanno venire l’orticaria. Ho solo riposto fiducia in loro e ho fatto, abbiamo fatto, di tutto per agevolarli riguardo la data di consegna, il lavoro tipografico, la pubblicità, ecc. I nostri autori non sono prodotti che vanno fabbricati.
Il libro però lo è.
Sì, è un prodotto, ma in confronto alle merci di fabbricazione persino i libri più commerciali celano un alto tasso di imprevedibilità. Figuriamoci nel caso di un romanzo vero e proprio. Chi può sapere in anticipo che effetto farà un romanzo, anche se ottimo, a chi comunicherà e che cosa? Racconto un esempio significativo: qualche anno fa abbiamo organizzato una campagna di manifesti pubblicitari nelle stazioni della metropolitana per lanciare uno splendido romanzo di un autore ancora sconosciuto. Il pubblico tradizionale, quello che l’avrebbe comprato in condizioni diverse, ha reagito negativamente alla campagna. Quelli che invece l’hanno comprato grazie ai manifesti in parte sono rimasti delusi, perché si aspettavano un libro diverso, uno di quelli che di solito si pubblicizzano nelle metropolitane. Ancora oggi mi morde la coscienza quando penso all’autore. Non credo nelle magie del marketing, ho preferito puntare sulla qualità, sulla fortuna e sull’intuito. In momenti di debolezza dico, anche se sempre a bassa voce perché non voglio che gli autori mi sentano: un libro diventa un successo se è predestinato, se non lo è, possiamo fare quello che ci pare e piace, sarà sempre del tutto inutile.
Certamente non avrete affidato tutto alla fortuna…
Fatto sta che noi per primi abbiamo fatto stampare un manifesto per pubblicizzare un libro: si trattava di Jadviga párnája (Il cuscino di Jadviga). Ma non avevamo i soldi dell’affitto per affiggerli, solo Závada [Pál Závada, l’autore del romanzo, ndt] ne ha esposto uno nella sua osteria preferita. Il successo del libro non è dipeso da questo ma in seguito, finché l’azienda tranviaria ce lo permetteva, abbiamo mantenuto un manifesto gigantesco in piazza Deák. Per primi abbiamo organizzato una serata teatrale con le novità pubblicate per la Settimana del Libro, e il pubblico già vent’anni fa era disposto a pagare il biglietto d’ingresso.
Eventuali finanziamenti pubblici potrebbero agevolare la letteratura?
Non da soli. L’ideologia bolscevica insegnava che l’arte rendeva l’uomo migliore. Per questo motivo veniva sostenuta la cultura. Oggi sappiamo che non è così. Se, però, lo Stato fosse più colto, sosterrebbe con maggiore vigore la letteratura nazionale, perché tutti ne trarrebbero vantaggio, anche l’immagine del paese. Lo Stato fa pochissimo, e spesso anche quello che fa è denaro buttato, per esempio quando promuove all’estero scrittori ungheresi che non riscuotono successo. A questo si aggiunge la grave parzialità che caratterizza i comitati che dispongono del poco denaro da distribuire. Credono di rappresentare il paese e di poter giudicare chi è bravo e chi non lo è. Come nel caso dei premi letterari statali. Quindi a mio avviso è bene che lo Stato resti a debita distanza, magari provando solo ad attribuire più borse di studio ai giovani.