di Janet Galbraith, “Mascara Literary Review” (issue 16), traduzione di Angela Vocciante.

Janet Galbraith è una poetessa e vive nel territorio del popolo Jaara [nella piccola cittadina di Castlemaine, nello stato di Victoria, nella parte sud-orientale dell’Australia, territorio della tribù aborigena degli Jaara, ndr]. I suoi lavori sono apparsi in Australia su riviste accademiche di letteratura e medicina. La sua raccolta di poesie re-membering è stata pubblicata da Walleah Press nel 2013. Janet ha fondato e coordina il Writing Through Fences [Scrivere attraverso le recinzioni, ndt], un gruppo di scrittura composto da persone che vivono nei centri di detenzione per immigrati.

 

Non danzerò al suono del vostro tamburo di guerra
Non cederò la mia anima né le mie ossa al vostro tamburo di guerra
Non danzerò al suo ritmo
Lo conosco quel ritmo
È senza vita
Conosco intimamente quella pelle che state colpendo
Una volta era viva
Non danzerò al suono del tamburo che ha destato la vostra guerra
…Costruirò da me il mio tamburo[1].

In_syria

Soulaf Abas, In Syria

Il Writing Through Fences è un gruppo di scrittura composto da persone che subiscono, o hanno subito, la detenzione prevista dai regolamenti australiani in materia di immigrazione illegale. Il nome evoca la capacità di scrittori e artisti di oltrepassare le recinzioni e i muri eretti allo scopo di contenerli, discriminarli e ridurli al silenzio. I componenti del gruppo ripetono continuamente che “stanno costruendo da sé il loro tamburo”. È attraverso i testi di questo gruppo variegato di persone – legate dall’esperienza della detenzione per reati di immigrazione, dallo sradicamento, dalla prigionia e dalla scrittura – che i concetti di lingua, esperienza, conoscenza e identità vengono (ri)affermati e (ri)creati, al di là di una terminologia spersonalizzante che intende presentarli solo come “detenuti”, “richiedenti asilo” o “rifugiati”.

“Fino a quando sarò chiamata ‘richiedente asilo’, ‘rifugiata’?” chiede una giovane donna che scrive da un campo di detenzione per immigranti[2].

“Io non sono solo questo” dice un ragazzo detenuto a Christmas Island. “Io sono un ragazzo, un fratello, un figlio, un calciatore, un Hazara [gruppo etnico che vive nelle aree montuose dell’Afghanistan centrale, in Pakistan e Iran, ndr], un amico, uno studente. Io amo mia madre, amo la mia famiglia, amo Janet, amo i miei amici e adoro il byriani [piatto tipico persiano, ndr]”[3].

Come molti lettori sapranno, le persone imprigionate nei campi di detenzione australiani per immigrati delle isole Nauru e Manus vengono identificati al loro arrivo con un numero. Un numero che fa riferimento al loro documento di riconoscimento o al numero identificativo della barca che li ha trasportati. L’uso dei numeri in sostituzione dei nomi nega l’esistenza di una storia personale e culturale. Perdere il proprio nome equivale, per molte delle persone con le quali ho parlato, a perdere sé stessi. Rimuove l’identità dell’individuo che esisteva prima dell’internamento nel campo di detenzione. In tal modo, la primaria esperienza di sé stessi diventa l’essere prigionieri, generata dalla confusione di essere riconosciuti solo in quanto “illegali” e “criminali”.

 

da Dintorni di tristezza

Che ho fatto per meritare questa situazione?
Richiedere asilo è forse un reato?
Quello che cercavo era la pace e la libertà
Ma ora ne sono lontano
Alla stessa distanza che separa il cielo e la terra.

S. Ahmed (Christmas Island)

Mass_burial

Soulaf Abas, Mass Burial

L’uso dei numeri non fa altro che aggravare la rottura dei legami familiari. Ce lo spiega una ragazza di 17 anni che in un post nel nostro gruppo di scrittura scrive: “Sono stufa di essere chiamata [numero identificativo nascosto]. Mia madre mi ha dato un bellissimo nome. È tutto ciò che mi è rimasto. Ma ora anche questa cosa è andata perduta perché sono solo un numero”[4]. In risposta a questo post un’altra giovane scrittrice ci ha inviato una poesia:

 

Una donna forte dice all’altra

Guardiamo avanti.
Avremo un giorno la nostra possibilità.
E verremo chiamati con i nostri bellissimi nomi.

Non siamo entrati illegalmente.
Non siamo illegali.
Lacrime su lacrime.

Nessuno ci porge un fazzoletto.
Siamo rifugiati.
Ricordi improvvisi ci riportano indietro.

Dove non possiamo tornare.
Dove possiamo andare ora?
Non ci lasceranno metter radici.

Dobbiamo essere forti.
Dimentichiamo i numeri.
Pronunciamo a voce alta
i nostri bellissimi nomi.

Asmine (Darwin)

Una delle cose che trovo più potenti di questa poesia è che, invece di lasciarsi determinare da quelli che l’hanno privata del suo nome o che il suo nome hanno corrotto, la scrittrice decide di essere protagonista, scegliendo di sostenere moralmente un’altra giovane scrittrice, incoraggiandola al ricordo e all’uso dei loro bellissimi nomi. Contro la brutale esperienza della detenzione e in contrasto con la degradante definizione di “poveri rifugiati”, questi scrittori rivendicano la forza, la tenerezza e la solidarietà, affermando la riappropriazione delle storie, dei ricordi, dei pensieri, delle emozioni, delle esperienze e dei nomi che sono loro.

Rivendicare tutto questo significa non dimenticare la violenza inflitta ai corpi e alle menti delle persone detenute.

 

da Fiumi d’acqua scorrono

Anni e mesi… settimane e giorni…
Ore… e minuti… secondi che volano via
da me… Ma il mio dolore
ha fatto sì che il mio cuore si spezzasse.
Fiumi d’acqua scorrono dai miei occhi
la spessa coltre del dolore ricopre
intero il mio corpo.

R. (Nauru)

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Soulaf Abas, Mother and Child

L’esperienza della detenzione produce spesso un profondo senso di isolamento e di dissociazione:

 

Senza titolo

Gli uccelli si sono levati tutti in volo,
solitaria e oziosa una nuvola sogna.
Non siamo mai stanchi di guardarci
soli, io e la montagna.

 K. (Melbourne)

 

Accanto a questo c’è tuttavia il tentativo di conservare le relazioni umane. Lo scrittore seguente, nel descrivere con parole intime l’amore che lo lega a sua moglie, invita il lettore a essere testimone di un sentimento che ha subito una così grave perdita e che è sottoposto alle continue sofferenze dei campi di detenzione.

 

Dopo la pioggia

Dopo la pioggia
c’è il tuo odore
sulla strada
che mi conduce al mio letto.
Ancora, ancora
dopo la pioggia
quando tutto è passato
e tutto è pulito.
Non riesco ancora a capire
cosa può cancellare il tuo nome
dalle pareti del mio cuore?
Non la pioggia.
Niente.

A.A. (Melbourne)

 

Anche il mondo della natura viene vissuto in modi diversi. Per uno degli scrittori detenuto a Manus Island la natura rende ancora più odiosa la tortura subita. “Questo è un verde inferno”[5]. Al contrario, un giovane scrittore del campo di detenzione di Christmas Island ne descrive tutta la bellezza:

 

Quando il mondo dormiva

Io scrivevo
mentre il resto del mondo dormiva.

Gli uccelli cantavano,
il tempo era calmo.
Sotto stelle luccicanti
mi sedetti fuori
e guardando il cielo
improvvisamente pensai:
Com’è bella la creazione di Allah.

H. Aden (Christmas Island)

 

Chiunque sia imprigionato dentro delle recinzioni avrà da raccontare storie di violenza e traumi, di perdita e disperazione, ma avrà anche storie di gioia, di attenzioni ricevute, amore, relazioni e meraviglia. Essere testimoni di ciò significa riconoscere questi scrittori come persone complesse e non come astrazioni di un’umanità divisa in categorie.

Uno scrittore, detenuto per più di cinque anni in un campo, chiede esplicitamente al lettore di esaminarsi nel proprio modo di vedere, di esprimere e di comprendere il concetto di umanità:

È un essere umano che vedi quando mi guardi?
Dalle profondità della tua anima, ti chiedo di darmi una risposta onesta.

G. (detenuto per cinque anni a Melbourne)

Ho letto tanti lavori di autori che hanno subito la detenzione nei campi per immigrati in Australia e sono sempre più convinta che ciò di cui si ha maggiormente bisogno è “mettere in gioco la nostra identità in modo più onesto nell’incontro con l’altro” [6].

Uno scrittore, riflettendo su un’immagine che mostra delle persone imprigionate a Nauru, ci sfida a guardare più da vicino, per andare oltre a retorica banalizzante e disumanizzante dei mass media:

 

Guarda quest’immagine più da vicino.
Prendi 30 secondi del tuo tempo per farlo.
Senti il dolore in questa immagine.
Queste persone sono bambini, donne e uomini rifugiati nel campo di Nauru. Non devi conoscerli. Guarda solo le loro mani, i loro volti e i loro occhi.
Il coro dei pianti e delle grida che bruciano dentro queste persone può facilmente sentirsi anche al di là delle recinzioni.
Guarda i pugni chiusi di questi uomini e di queste donne. Sono scappati dalle prigioni della politica, della discriminazione tribale, della fede unica, del fanatismo religioso, della schiavitù morale, dell’orientamento del Basīj [corpo paramilitare volontario iraniano che, costituitosi agli inizi degli anni ottanta, conta più di un milione di affiliati e ha da sempre rappresentato uno dei più capillari strumenti di oppressione dei regimi illiberali e integralisti teheraniani, ndr], dell’ipocrisia, della dittatura, delle cattive compagnie, della separazione, della discriminazione sessuale, dell’inflazione e dei sussidi governativi e sono finiti sotto i perfidi occhi di uomini in cravatta.
Ingrandisci il volto stanco di questi bambini. Anche loro amano la libertà, sognano di studiare come gli altri bambini.
Quest’immagine non fissa il ricordo di un picnic in famiglia. Mostra piuttosto il grado di perfezione raggiunto dai cosiddetti “diritti umani” nel più remoto angolo di mondo. È un capolavoro nella storia della barbarie e della violazione dei valori umani. Questa è Nauru – la prigione – dove tutti gli strumenti di tortura per bambini, spirituali e psicologici, sono decorati e scientifici.
In quest’immagine l’immoralità senza vergogna e il terrore ci vengono sbattuti in faccia – le recinzioni metalliche sono i confini tra la moralità e l’immoralità.
Guarda attentamente! Non ti perdere la scena!

A.N. (scritto subito dopo il rilascio)

 

Ciascuno di questi scrittori ci chiede di guardare più da vicino le immagini delle persone imprigionate nei campi propinateci dai media. I lettori fuori dalle recinzioni sono incoraggiati a guardare oltre il linguaggio riduttivo che ingabbia i detenuti, sia esso quello dei sostenitori del sistema australiano, che quello dei suoi detrattori. Siamo invitati a guardare “le mani, gli occhi e i volti di queste persone”; a sentire “i pianti e le urla che bruciano dentro di loro”; a ricordare i loro nomi, a riconoscere che sono fuggiti dalla loro terra per molte ragioni differenti; e che quest’immagine ci dice molto sulla nostra umanità: “In quest’immagine l’immoralità senza vergogna e il terrore ci vengono sbattuti in faccia”. 

Fady Joudah, poeta e medico, scrive: “In qualche modo, la poesia può contribuire a restituire l’umanità agli altri, anche usando il linguaggio di tutti i giorni”[7]. Forse è in questo modo che la poesia e gli scritti del gruppo di autori del Writing Through Fences diventano un dono più grande di quanto noi, che viviamo al di là delle recinzioni, avessimo mai potuto immaginare. Poiché apre uno spazio per ri-scrivere i confini dell’umanità in un contesto in cui, come scrive uno degli autori imprigionato a Manus Island: “È la perdita della nostra umanità quello a cui stiamo assistendo”[8].

 

Questo pezzo è stato scritto da Janet Galbraith in collaborazione con gli scrittori del Writing Through Fences.

 

[1] What I Will, spoken-word poem [poema parlato, ndt] di Suheir Hammad. Suheir Hammad, Poems of war, peace, women, www.ted.com.

[2] A. Mohammed.

[3] Nome nascosto.

[4] Nome nascosto.

[5] M.H.

[6] Melissa Smyth, Cycles of Art and Healing Among Syrian Refugees, www.warscapes.com.

[7] Doris Bittar, Poetry Without Borders: Translating Mahmoud Darwish, a Conversation with Fady Joudah, www.aljadid.com.

[8] Hossein Babaahmadi, thearrivalists.tumblr.com.

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