di Sophie Benech, “La République des livres”, traduzione di Kathrine Budani.

Comincerò da una cosa un po’ banale, ma va bene, pazienza, lo dico lo stesso: il mestiere del traduttore è un mestiere meraviglioso. Ogni traduzione è un viaggio in un universo nuovo, un’occasione per approfondire le proprie conoscenze o acquisirne di nuove, un incontro con una persona fuori dal comune – parlo dell’autore, naturalmente. Tutti quelli che ho avuto l’occasione di tradurre sono stati o sono scrittori di talento o grandi scrittori. E qui, oltre tutto ciò, c’è la poetessa di cui ho scritto la biografia e che amo particolarmente, Anna Achmatova.

Sophie Benech

Sophie Benech

Certo, ogni traduzione porta con sé la sua parte di difficoltà. In una è uno stile limpido e rigoroso che bisogna guardarsi dall’imbellettare, in un’altra sono delle immagini originali, una lingua estremamente lavorata, o poetica, o al contrario parlata. In una ci si scontra con un lessico specialistico o molto ricco, in un’altra le parole sono semplici e tutto sta nell’intonazione… Ogni volta è una nuova sfida e per chi trae piacere dal maneggiare le parole, una vera beatitudine.

Nadežda Mandel’štam non è una grande scrittrice né una maestra di stile, è una donna colta che riflette, è sensibile alla poesia della lingua, ma è anche una persona che non va troppo per il sottile e non ha peli sulla lingua. Tutto ciò traspare dal suo modo di scrivere, il suo stile è moderno e spontaneo, spesso familiare, un po’ negligente, con, qua e là, delle frasi o più ricercate, o più crude, che si inseriscono naturalmente nel fiume della sua scrittura. La posta in gioco era di mantenere questo tono e di non rendere il testo troppo letterario. Trascrive dei ricordi di diversa natura, passando da un argomento all’altro, saltando talvolta di palo in frasca, come in una conversazione con il lettore o con sé stessa. Tutto ciò intervallato da frammenti di poesia, così come accade molto spesso in molti russi colti che ho incontrato (una volta era, a quanto pare, consuetudine anche in Francia, ma la tradizione ormai si è perduta…): la poesia occupa un tale spazio nel loro universo che tutte le circostanze della vita fanno sorgere nella loro memoria dei versi che esprimono o illustrano ciò che essi vogliono esprimere.

Tendando di rendere al meglio tutto quello di cui ho appena parlato, ovvero di far sentire la voce di Nadežda come la percepisco attraverso questo testo, senza migliorarla né renderla più letteraria di quanto non sia, ho cominciato con lo scegliere, per esempio, di impiegare il passato prossimo (e, in certi casi, il trapassato prossimo).

Quindi ho mantenuto, cercando di integrarle nel flusso generale del testo, certe espressioni, certe forme molto familiari che si innestavano su delle frasi più classiche – “com’è che non ho piantato Mandel’štam”, “tutto va male”, “aveva raccolto un mucchio di medaglie”, “l’Achmatova voleva mettermi sotto torchio”… Ho cercato di mantenere la sua naturalezza, di restituire la sua voce.

Per quanto riguarda le difficoltà lessicali, qui non sono molto numerose. Il lessico è relativamente semplice, cosa che non vuole sempre dire che sia più facile da tradurre di un testo nel quale il lessico è più ricco, poiché ciò che conta è l’adeguatezza del tono. Le parole rare o sconosciute non sono di per sé una difficoltà, piuttosto la difficoltà sta nel percepire l’effetto che il loro impiego produce in un parlante della lingua (se esso risulta sconveniente, prezioso, poetico, ecc.). Un traduttore non si trova in un’aula d’esame, ha il diritto, e direi anche il dovere, di servirsi dei suoi dizionari! Credo di non aver incontrato in questo testo che qualche difficoltà in quest’ambito. Siccome gli esempi concreti sono più eloquenti dei discorsi teorici, vi presenterò in dettaglio tre di questi.

Una piccola digressione prima di entrare nel vivo dell’argomento: bisogna sempre tenere presente che le parole fanno riferimento, nelle diverse lingue, a campi semantici che non sempre concordano. Accade spesso che una parola (russa, ad esempio) possa essere tradotta, a seconda del contesto, con tre o quattro parole francesi diverse. Anche il contrario è vero, ovviamente, accade che una sola parola francese possa essere tradotta da più parole russe. Prenderò un esempio relativamente semplice e concreto (incontrato in una delle poesie della Achmatova proposta nel libro). La parola russa tchacha può essere tradotta con coppa, calice o anche vaso (se con questo si intende in francese non il vaso dove si mettono dei fiori, ma quello dell’espressione “vaso d’elezione”.) Al contrario, coppa e calice saranno tutti e due tradotti in russo con tchacha, parola che evoca subito, per un russo, il Cristo nel giardino del Getsemani o l’ultima poesia del Dottor Zivago di Pasternak: “Supplicava il Padre/Che questa coppa gli venisse risparmiata”, ma ugualmente la coppa che i cavalieri si passano di mano in mano nel corso di un banchetto. Qui si tratta di un oggetto al quale si dà una certa connotazione: nella mente di un francofono la parola coppa e la parola calice risvegliano ognuna degli echi e delle associazioni differenti. Tanto che la soggettività del traduttore gioca un grande ruolo nella scelta del termine o, in altri casi, del sinonimo. Le cose si complicano ancora, ovviamente, quando si tratta di una nozione o di un concetto.

Torno ai ricordi di Nadežda Mandel’štam. In questa traduzione ho incontrato una parola impossibile da tradurre (non voglio dire con ciò che non se ne possa tradurre il senso – il che è sempre possibile – ma che non si può farlo in un modo altrettanto netto, conciso, figurato come nella lingua originale); un’altra parola poi che in russo ha un significato talmente più ricco rispetto al francese che bisognerebbe trovare un modo per farlo comprendere, e una terza parola infine che, in russo, ha due sensi che si sovrappongono (per la quale ho dovuto risolvere alla fine e sceglierne uno, un po’ barando).

Comincio dalla prima. Preciso che il mio scopo, che condiziona la soluzione da me scelta, è prima di tutto fare in modo che il lettore francese comprenda immediatamente di cosa si tratta, almeno tanto naturalmente come per il lettore russo. I giovani poeti acmeisti, il movimento poetico di cui facevano parte la Mandel’štam e l’Achmatova, si sono opposti ai simbolisti, e hanno creato una parola per designarsi, gli smysloviki, sulla radice smysl, il senso, nell’accezione “il senso della vita, il senso di una parola” (esiste anche la parola znatchenie, significato e, nelle due lingue, le due parole contengono segno in francese e znak in russo). La parola smysloviki non esiste in russo, ma si capisce immediatamente (il russo è più flessibile del francese e crea più facilmente parole nuove). Se il sostantivo fosse stato formato su znatchenie, avrei potuto, forzando un po’, creare in francese la parola significatore (così come è già stato fatto), poiché la sua sonorità abbastanza barbara riecheggia quella, ugualmente un po’ barbara, del termine russo. Ma è impossibile giocare a creare qualcosa di equivalente con la parola senso… Le soluzioni sensisti o sensori sono certamente inaccettabili. Gli acmeisti si smarcavano dai simbolisti (che insistevano sul simbolo a detrimento del senso originario, intrinseco, delle parole) e dai futuristi (che si divertivano a distorcere il senso e giocavano con le sonorità). Per far comprendere ciò, ho ripiegato su una soluzione che non mi soddisfaceva completamente: gli smyloviki sono diventati “gli adepti del senso”. E ho aggiunto una nota nella quale preciso che si tratta, in questo caso, più di un senso ontologico delle parole che non del loro semplice significato.

Nadjeda Mandelstam, “Sur Anna Akhmatova”, edizione e postafazione di Pavel Nerler,  traduzione dal russo di Sophie Benech

Nadjeda Mandelstam, “Sur Anna Akhmatova”, edizione e postfazione di Pavel Nerler, traduzione dal russo di Sophie Benech

Secondo problema, più delicato… Esistono in russo due termini, e persino tre, per libertà o la libertà (apro una parentesi per ricordare tra l’altro a coloro che l’abbiano dimenticato che il russo non ha l’articolo – cosa che talvolta pone dei problemi. In generale, il contesto o la posizione delle parole danno indicazioni sufficienti per comprendere se il sostantivo è preceduto o no da un articolo determinativo. Ma può esserci un’ambiguità. Ciò concerne in particolare la traduzione dei titoli, dove l’assenza di contesto impedisce di sentire se una parola è determinata o indeterminata, e se si debba dire dunque uno o il… Ciò spiega, per esempio, perché si può trovare La Guerra e la pace e Guerra e pace, Delitto e castigo o Il Delitto e il castigo, Poema senza eroe o Il Poema senza eroe – chiudo la parentesi). La parola generalmente utilizzata per libertà è svoboda (la libertà di “libertà, uguaglianza, fraternità”, e tutti gli impieghi più correnti del termine, in un contesto politico o sociale). Ma esiste anche un’altra parola russa, volia (che, lo preciso rapidamente, significa ugualmente volontà, le due nozioni sono legate: si è liberi quando si può esercitare la propria volontà, si ha una volontà propria quando si è liberi). La parola volia è anch’essa usata correntemente, si ritrova nell’espressione “na vole”, molto spesso impiegata per dire “ritrovarsi in libertà” quando si esce di prigione. È anche più poetico, più “filosofico”. Si ritrova ugualmente nell’aggettivo volny (che non ha affatto lo stesso significato dell’aggettivo svobodny formato su svoboda), utilizzato per esempio per indicare i cosacchi… Quando si dice svoboda, si vede e si intende pressappoco la stessa cosa di quando si dice libertà in francese. Quando si dice volia, si vedono dei cosacchi galoppare liberamente attraverso la steppa, si sente l’immensità di spazi senza limite sui quali si spiega una libertà inebriante. Infine, è quello che vedo io. (Esiste in russo una espressione consacrata, “kazatchiia volia” – è anche il titolo di una canzone – per indicare questa famosa “libertà cosacca”).

E poi c’è la parola che si trova in questi ricordi, svoevolie, con il prefisso svoe-, che indica tutto ciò che concerne sé stessi, tutto ciò che ci riguarda, personalmente, intimamente… Svoï sono i nostri parenti, i nostri intimi. Svoevolie è “la libertà di agire secondo la propria volontà”, “la libertà che si dona a sé stessi”. Si traduce generalmente con licenza. Quando guardo nel Robert [fra i più prestigiosi dizionari di lingua francese, ndr] trovo molteplici definizioni della parola licenza. Ecco la seconda (II): “1) libertà d’azione che viene lasciata a qualcuno, o che qualcuno si prende da sé. 2) libertà eccessiva, disordine, anarchia. 3) sregolatezza nei costumi” . Queste tre definizioni ricoprono bene il senso di svoevolie. Ma se si riflette, ci si rende conto che non è affatto il primo senso che viene alla mente di un francese (neppure a quella degli autori del Robert), e soprattutto, che la parola russa, grazie alle sue radici (volia, “libertà-volontà”, e svoe, “che rientra nell’ambito di sé stesso” è ben più evocativo della parola francese. Senza contare che in russo si pensa subito ai cosacchi che galoppano nella steppa, di cui vi ho parlato sopra. Anche la traduttrice che ha tradotto Contro ogni speranza si è scontrata con questo problema. Orbene, è una parola estremamente importante qui, perché Nadežda Mandel’štam costruisce tutta una teoria opponendo svoboda e svoevolie, non è solo un termine che appare una volta e si fonde nel testo. La mia collega aveva optato per la soluzione di non tradurlo sempre nello stesso modo e si spiega in una nota (licenza, finta libertà, piacere, arbitrario), ciò che si imponeva, tanto più che lei aveva a che fare con un capitolo intero su questo tema. Da parte mia (avevo giusto qualche paragrafo), ho scelto licenza, che ho trasformato una o due volte in libertà sfrenata quando era possibile, naturale, e che ciò rendeva le cose più chiare. Come nel caso di smyloviki, non sono interamente soddisfatta, ma (ripeto una banalità), tradurre è scegliere e talvolta sacrificare…

Nadjda Mandelstam

Nadjda Mandelstam

Finirò con un altro esempio, che si incontra proprio all’inizio del testo: Nadežda Mandel’štam parla di persone nepouganye. È un participio passato passivo: pougany vuol dire “che è spaventato”, o piuttosto “colui che è stato spaventato e che è ancora sotto l’influenza di questa paura”. Evoca il detto russo “a una cornacchia pouganaïa, anche un ramo fa paura”. Altrimenti detto, “una cornacchia che ha paura di tutto (spaventata, in stato di spavento) ha paura anche di un piccolo pezzo di legno”. Nepougany, è qualcuno al quale non si fa paura, che non è stato terrorizzato, che non è “spaventato” di colpo e non ha paura di nulla. Il russo esprime tutto ciò in una sola parola. È una parola che in russo passa in modo del tutto naturale. La Achmatova temeva più di tutti le persone nepouganye perché non si rendevano conto del pericolo, chiacchieravano a vanvera, non diffidavano delle spie, e potevano causare la loro rovina e soprattutto quella degli altri. Non si può dire “lei temeva le persone non spaventate”, né “lei temeva le persone a cui non si è fatta paura”… Avrei potuto mettere “le persone che non hanno paura di nulla” ma ciò avrebbe potuto suggerire che erano coraggiosi e non che non avevano mai incontrato la paura. Ho scelto “le persone che non conoscono la paura”, mi è sembrato che fosse più vicino al vero senso. È meno compatto, meno raccolto del termine russo, ma è ciò che ho trovato di meglio. Resta comunque un piccolo problema: “le persone che non conoscono la paura”, o “le persone che non hanno conosciuto la paura”? Scelta corneliana. Vuol dire entrambe le cose. È qui che ho barato: dal momento che la parola torna varie volte, ho scelto talvolta l’una, talvolta l’altra…

Ma lasciamo perdere i problemi concreti. Vorrei terminare con l’ultima difficoltà con la quale mi sono scontrata in questo testo. Questi ricordi si inscrivono in un’epoca molto precisa, fanno riferimento a un grande numero di avvenimenti storici e tragici, così come a dei dettagli sulla vita e l’opera della Achmatova. I russi colti sanno chi è la Achmatova, quello che lei ha rappresentato nella Pietroburgo prima del ’17, quello che è accaduto nella vita letteraria russa tra il 1920 e il 1966. Hanno un’idea della sua biografia, sanno (almeno i più anziani) ciò che ha rappresentato l’acmeismo nell’opposizione al simbolismo, ciò che significava quando un decreto del Comitato centrale se la prendeva con la redazione di una rivista, quella che era la vita quotidiana nell’URSS. Comprendono senza che ci sia bisogno di spiegarglielo, perché lei sia stata obbligata a continuare a vivere sotto lo stesso tetto del marito dopo la loro separazione (per l’impossibilità di farsi assegnare un alloggio – ho io stessa incontrato numerose volte dei casi di questo tipo nell’Unione sovietica). Ma i lettori francesi, specialisti a parte, rischiano di essere un po’ smarriti, come potranno apprezzare pienamente questo testo e farsi un’idea della grande poetessa e della grande dama che era Anna Achmatova, senza un minimo di informazioni? Per loro, molte cose non vanno da sé. Anche io, che frequento la letteratura, la storia e la cultura russa del XX secolo da molto tempo, mi sono dovuta informare su certi punti per comprendere e apprezzare realmente ciò che traducevo.

Mi sono dunque trovata davanti a un ultimo compito, e non il minore: tentare di raccogliere tutti gli elementi utili a una comprensione profonda di questo testo, ed esporli ai miei compatrioti nel modo più vivace possibile, affinché acquisissero leggendole le mie stesse informazioni – ciò che avevo già fatto per Isaac Babel. Ho scelto di farlo in una premessa, perché le note appesantiscono sempre una lettura (tutti i riferimenti che non sono assolutamente indispensabili per la comprensione sono raggruppati alla fine).

Ho imparato tantissimo nel tradurre questo libro. Sulla poesia russa dell’inizio del secolo, sulla vita della Achmatova, sulla sua opera, su alcune persone che conoscevo solo di nome. Sono anche andata a vedere con i miei occhi tutte le case dove ha vissuto a San Pietroburgo-Pietrogrado-Leningrado, la finestra attraverso la quale ha visto suo figlio portato via dai rappresentanti della nkvd il giorno in cui è stato arrestato. Ho tentato di riunire tutto ciò in una premessa interessante da leggere, che evoca in modo vivido Anna Achmatova, la sua vita, la sua opera, ma anche la sua bellezza, il suo fascino, la sua personalità fuori dal comune e il suo spirito tagliente. In breve, ho fatto tutto ciò che era in mio potere affinché anche il lettore francese potesse approfittare di ciò che avevo raccolto nel corso della mia traduzione. Scrivere una prefazione o una premessa, ai miei occhi, fa parte del mio lavoro di traduttrice, ne è ugualmente un aspetto importante.

D’altronde questo libro mi ha dato l’occasione di passare più di tre mesi nell’universo poetico della Achmatova e in quello della Mandel’štam (perché, l’ho detto, il testo è infiorato di citazioni delle poesie di entrambe), e quale gioia, quale beatitudine nell’essere obbligata, non fosse altro che dalla coscienza professionale, a passare intere serate a leggere e a rileggere delle poesie…!

Infine, poiché speravo che il lettore francese sentisse, almeno un po’, l’immenso talento delle due poetesse presenti in questo libro, non ho potuto resistere alla voglia di proporre qualche poesia in allegato al testo di Nadežda Mandel’štam (ne approfitto per ringraziare ancora una volta il mio editore Antoine Jaccottet [edizioni Le Bruit du Temps, ndr]  per avermi lasciato questa libertà).

Spero di aver fatto comprendere a coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi fino alla fine che uno dei principali scopi del mio lavoro di traduttrice da vent’anni è quello di condividere. Condividere l’amore che ho per questo paese, questa cultura, questa lingua, condividere tutto ciò che ho compreso e sentito nel corso degli anni attraverso questa esperienza e che ha modellato e modella costantemente la mia percezione della vita e delle persone. E infine, condividere l’immenso piacere che mi procura la lettura degli autori russi che amo.

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