di Malva Flores, “Literal Magazine”, traduzione di Simona Palminteri.
Si narra che Attila, re degli Unni, “flagello di Dio”, non fosse un uomo così crudele come lui stesso desiderava essere dipinto. Amava la poesia, ma intimamente disprezzava – come Genserico, re dei Vandali – “il lusso della sconfitta”. Fu probabilmente in sella a Othar, alle porte di Costantinopoli, che pronunciò la frase che tutti ricordiamo: “Le stelle cadono, la terra trema, io sono il martello del mondo e dove passa il mio cavallo non cresce più l’erba”. Dopo un crudele assedio e il tradimento dell’imperatore Teodosio da parte di alcuni romani, Attila sottrasse a Costantinopoli un brutale tributo per i suoi eserciti. Teodosio era un pusillanime, Attila una macchina da guerra, e, come sempre in guerra, una macchina estremamente redditizia, che accelerò la fine dell’Impero romano. Tutti gli imperi giungono alla fine. Vengono sostituiti da altri, e mentre ciò accade le guerre intestine rappresentano la goccia che li va erodendo.
L’arte è, è stata, una forma di dominio? Soltanto se la concepiamo al di fuori dell’arte stessa, di tutte queste vaghe pseudoscienze che hanno voluto addomesticarne il potere sovversivo, limitandola a categorie che non le sono proprie; come se rinchiudendo in un cerchio di parole l’oggetto artistico potessimo costruire un recinto adatto a una pecora domestica. L’arte non è una pecora e ha sempre scavalcato i paletti di ogni recinzione, ma noi preferiamo ingabbiarla, privandoci della sua radicale e pericolosa stranezza, che ci costringe a riflettere. Bisogna addomesticare questa bestia, bisogna renderla manipolabile e abbiamo voluto sottometterla, da dentro, con il linguaggio. Questo “dentro” sembra un agente segreto, un romano privo della sua fede, alleato degli Unni. Solo che l’arte non è una forma di dominio, ma la forma più persuasiva della libertà.
Quando, già molti anni fa, Alfonso Reyes considerò il saggio come “il centauro dei generi”[1], fece l’occhiolino a quello che oggi chiamiamo ibridismo, che non è altro che l’unione non inverosimile di due o più generi letterari: come l’uomo e il cavallo cavalcarono uniti nella forma di quella prodigiosa creatura, così gli elementi del saggio, come in una provetta, si univano per produrre un nuovo elemento. Pura alchimia, il saggio è la forma che deriva dall’unione di generi apparentemente dissimili; un’unione che già Montaigne dalla sua torre immaginava con un profilo meno drammatico, più amabile, vista la natura della sua mutevolezza. Il saggio era, allora, una passeggiata tra le cose e i secoli, tra le opere e gli uomini. Era anche una riflessione e un’indagine sull’uomo, l’arte o la letteratura, svolte dalla letteratura stessa. Era, è, un’altra forma di creazione.
Non parlerò qui della storia, che è troppo lunga, del genere; né delle strane e, secondo me, oziose disquisizioni sul fatto che sia realmente un genere o no. Farlo implicherebbe dubitare anche dell’esistenza del mulo, questo cavallo/asino che propiziò quel bel poema di Lezama Lima – la sua Rapsodia[2] –, che inizia dicendoci: “Con che passo sicuro il mulo verso l’abisso va”. Allo stesso modo il saggio. Comunque, per come lo immaginiamo noi, oggi si confronta con molti detrattori, poiché la specializzazione della conoscenza ha portato a considerare una serie di equivoci come categorie scientifiche. La mania della catalogazione, delle tassonomie, è giunta al saggio proprio nel momento in cui era, tra i generi, il più libero. Oggi facciamo i conti con l’esistenza del saggio accademico, del saggio letterario e, tra questi, con una varietà assurda di nomenclature.
Nulla mi ha colpito più che vedere, facendo parte della giuria per l’assegnazione di alcune borse di studio letterarie, che la stessa categoria per la quale anch’io avevo concorso molti anni prima – il saggio –, adesso si chiama “saggio creativo”. Se esiste un saggio creativo, significa che ce ne sono centinaia, migliaia (me l’hanno detto le autorità) che non lo sono. Quell’aggiunta aveva lo scopo di lasciare fuori il saggio accademico, le tesi e altri prodotti che contengono più citazioni che testo, meno idee che parole. Non voglio esagerare, dico solo che tra gli scrittori c’è stata una lotta spietata per reclamare la paternità del genere. Non so come finirà questa disputa. Sicuramente molti alberi verranno abbattuti per dimostrare la “legittimità” di qualunque posizione. Chiarisco che la mia difesa degli alberi non vuole essere un’espressione del “politicamente corretto” favorevole alla “sostenibilità”, e chi ci ha imposto la correttezza politica come metodo per spiegare il mondo ci ha obbligato a modificare la nostra visione della realtà in modo da sottomettere il pensiero alla blanda sfera dell’eufemismo, che non comporta alcun rischio, è manipolabile e, ciò nonostante, reclama con avidità sacrifici in suo nome.
Così un’ombra si aggira per i campus universitari: quella dei professori che, vittime di un concetto da loro stessi alimentato – quello del politicamente corretto – sono stati accerchiati dal mostro che hanno creato, e non sono poche le volte in cui essi stessi sono ingiustamente sottoposti a giudizio, nell’assoluta mancanza di buon senso, per aver attaccato le credenze dei loro allievi. Ciò ha portato a disposizioni “accademiche” davvero sorprendenti. In un programma di studi latinoamericani negli Stati Uniti, ad esempio, i professori devono avvertire che alcuni dei testi proposti (Il labirinto della solitudine[3] è un caso che ricordo) potrebbero risultare offensivi per gli studenti e, per tanto, la loro lettura non è obbligatoria. Non manca molto che si proibisca il Don Chisciotte e che, da una parte o dall’altra, un professore possa perdere il proprio lavoro se rimprovera a uno studente la mediocrità di un suo scritto.
Questa censura sui generis occulta un altro tema che poche volte viene affrontato nelle varie riflessioni in materia: la perversa ufficializzazione, omogeneizzazione, del linguaggio critico. Nella metà del secolo scorso, il “pensiero universitario” si è affermato come l’unico moralmente legittimo perché, si diceva, era autonomo e non dipendeva dalle circostanze politiche o economiche: piuttosto era esso a incidere su di loro. Anche se l’evidenza dimostra il contrario, l’autonomia del pensiero universitario è qualcosa che si dà per scontato: non si discute, e le università sono, nel nostro immaginario, le uniche depositarie del pensiero critico. Ma il linguaggio sovversivo che le ha caratterizzate negli anni sessanta è stato espropriato dal camaleontico linguaggio ufficiale: i nostri saggi sono la prova più convincente di ciò di cui parlo.
Il saggio è una delle espressioni più pure della passione scritta. Questo non significa che la sua scrittura debba smarrire il rigore di uno studio metodico o che, abusando della vena lirica, il saggio debba prescindere da un’argomentazione rigorosa. Il saggio non è neanche un accumulo smodato di citazioni che non sorprende nessuno e non fa altro che affaticare l’animo di chi legge nella speranza di ritrovare qualcosa che abbiamo perso: l’entusiasmo. Noi siamo le nostre parole e non è difficile capire che la profondità e l’ampiezza delle nostre passioni o dei nostri entusiasmi sono direttamente proporzionate al nostro linguaggio.
Non possiamo, io non posso, scrivere su un tema che non mi coinvolga personalmente. In ogni parola che scegliamo esiste quell’elemento intimo che ci congiunge con ciò che scriviamo, sia che il nostro saggio parli di mosche, letteratura, calcio, politica o della composizione delle diverse forme di sonetto. Fare il contrario significa simulare. Solo se nella provetta del saggio racchiudiamo il sale e il pepe delle nostre idiosincrasie, desideri e ammirazioni, potremo ottenere da esso un nuovo elemento il cui unico scopo sarà condividere una conversazione scritta e indurci a pensare. Questa, in definitiva, è la letteratura. Un modo per leggere il mondo. Una conversazione che prima passa attraverso un soliloquio e dopo, nella forma del saggio, può mutarsi in un dialogo con l’altro, anche se questo altro non lo conosceremo mai. Suscitare questo dialogo, dargli la forma dello scambio o della contrapposizione è, deve essere, il compito del saggio. Un altro dei suoi compiti, da cui quegli altri dipendono, è la sua leggibilità.
Però, al giorno d’oggi, il saggio è stato assediato da un’invasione che lo sta distruggendo: si crede che per evitare risultati “impressionistici” sia indispensabile ricorrere a una terminologia teorica imbellettata dal gergo prelevato da un vero e proprio linguaggio autonomo: quello della filosofia. La filosofia e la letteratura sono linguaggi specifici che si incontrano e confluiscono nell’uomo. Comunque, noi studiosi di letteratura, e in generale di tutte quelle discipline erroneamente chiamate scienze sociali, abbiamo creduto che i nostri mezzi fossero troppo deboli al cospetto dell’esattezza del linguaggio scientifico. All’università abbiamo corrotto il linguaggio letterario sostituendolo con le “metodologie” e con un vocabolario ad hoc. In casi ancora più drammatici, confondiamo le nostre metodologie con i prodotti tecnologici (i “dispositivi”, secondo la terminologia in uso). E così, come la tecnologia non è il pensiero scientifico, ma la sua applicazione, abbiamo dotato le nostre vaghe metodologie, che cambiano al cambiare delle mode, del presunto potere di una tecnologia ad uso comune. Però una tecnologia non è un pensiero.
Il problema non riguarda l’assenza o l’esistenza di un orientamento teorico nel saggio. La sua presunta assenza è la ragione a cui ricorrono i ministri del culto per squalificare qualsiasi discussione letteraria che non sia espressa per mezzo di tecnicismi. Tutta la letteratura è diventata, di per sé, il risultato di un pensiero di tale natura. È assurdo credere che possiamo ridurla a un vocabolario minimo, a uno pseudo ragionamento che, in realtà, è la misera messa in scena di una tecnica pedagogica che si è trasformata in una forma di burocrazia del linguaggio. Questa burocrazia ha colonizzato tutti campi dell’attività umana: questo è il potere di ogni totalitarismo e del linguaggio piatto, noioso, eunuco che ci ha sottomesso. Non ce ne rendiamo conto e l’esempio che segue non è un’esagerazione retorica. È reale, è accaduto e accade tutti i giorni davanti ai nostri occhi. Ma l’ha già detto Daniel Sada: “Nessuno conosce la verità perché ha le sembianze della menzogna”[4].
Durante gli ultimi mondiali, un commentatore di Televisa cominciò a disquisire sulla “narrazione del calcio d’angolo” e qualche minuto dopo, di fronte alla débâcle della nazionale, esclamò: “è che non riescono ad articolarsi”. Nessuno ha notato questo giro di parole perché ormai è questo il nostro linguaggio. Ho commentato scrivendo su Twitter: “Alla narrazione del calcio d’angolo dobbiamo articolare la narrazione del colpo di tacco”. Sono stata ritwittata, applaudita e commentata… da diverse persone che, senza rendersene conto, utilizzano queste due parole, “articolare” e “narrazione”, nel loro linguaggio quotidiano.
Quando scriviamo i nostri saggi utilizzando il vocabolario approvato dal Conacyt[5], che nei suoi copiosi documenti ufficiali consiglia di avere cura del “sapere” per favorire “l’orizzontalità del discorso”, in realtà stiamo seguendo in ginocchio le idee dettate dagli organismi internazionali che diciamo di combattere perché sono l’espressione del sistema che ci soggioga, burocratizzando qualsiasi espressione di libertà: e ci dimentichiamo che la prima di queste espressioni è il linguaggio. Paradossalmente, questo mondo che dice di rispettare le differenze allo stesso tempo proibisce e demonizza il discernimento, primo compito del critico, il dissenso e la varietà.
Brandendo le nostre armi ideologiche – le parole – crediamo di essere rivoluzionari e concettuali. Ma la nostra critica letteraria è come il PRI[6]: burocratica-istituzionale e profondamente corrotta perché si è compromessa con le mode, con le “linee di investigazione” accademiche e gli esperimenti pedagogici promossi dalla UE, dalla Banca Mondiale, dall’OCDE, ecc. e noi, docilmente, cerchiamo la nostra linea, ci prepariamo a ricevere “stimoli alla produttività”; e ci piace pensare che stiamo contribuendo al bene comune, mentre disonoriamo secoli di tradizione critica rimpiazzandoli con il glossario tecnico che ci hanno imposto le istituzioni.
Intento all’orizzontalità, all’inclusione delle minoranze, eccetera, il linguaggio del saggio contemporaneo è, di fatto, uno strumento di segregazione. Chi lo adopera non parla affinché gli individui coinvolti lo comprendano, ma per una consorteria che pretende di mantenere il potere e la quota finanziaria che vi corrisponde. Parlano tra di loro, si citano a vicenda, e la pretesa “socializzazione della conoscenza” è solo un’etichetta di convenienza, che non amplia le conoscenze e si conforma all’omogeneità del discorso. Così è possibile che un commentatore di calcio, un dottore in lettere o un poeta utilizzino lo stesso linguaggio. È necessario dire che, oltre alla religione, la migliore forma di colonizzazione è stata il linguaggio? Le istituzioni ci hanno convertito alla loro fede e, allo stesso tempo, hanno voluto che ritornassimo a essere i loro funzionari. Nuovi Torquemada, linciamo con gusto chi non professa la nostra religione, anche se ci piace affermare che la nostra religione trova il suo fondamento nel rispetto per le differenze.
Dopo la seconda guerra mondiale, nella critica letteraria si sono affermate profonde trasformazioni che oggi ci tengono – almeno nei paesi satelliti del pensiero nordamericano che, a sua volta, si è appropriato del pensiero francese, tedesco, eccetera – in un grave stato di prostrazione rispetto alle nostre stesse capacità argomentative. Oggi non siamo più capaci di immaginare o di pensare di compiere due passi al di fuori del nostro ambito teorico: consapevolmente o inconsciamente ripensiamo (ripetiamo) ciò che gli altri hanno detto e questo ci sembra un gesto brillante. Crediamo che quello che diciamo sia la realtà, che la letteratura esista solo come documento e che la nostra funzione non sia comprendere, condividere e trasformare in altro un’esperienza estetica, ma “problematizzarla”, tradurla in un linguaggio che la tradisca: omogeneizzarla.
Tutto ciò è grave, ma diventa realmente tragico quando in un poema o in un romanzo, letteralmente, la voce lirica o i personaggi vengono sulla base di questo ripensati. Non è strano che ciò avvenga visto che le istituzioni poste alla giuda della cultura di questo paese promuovono lo stesso linguaggio e le stesse politiche del Conacyt. Vi chiederete, a ragion veduta: non esisteva un vocabolario privilegiato anche per la vecchia storia della letteratura? Non si usavano tecnicismi? La differenza consiste nel fatto che un saggista o un critico li utilizzava come strumenti e non pensava che queste voci sostituissero il pensiero critico. Ci siamo già trasformati, come Theodore Roszack temeva nel 1968, nei figli della tecnocrazia, da lui definita come “quella società nella quale coloro che governano si giustificano appellandosi ai loro esperti tecnici, i quali, a loro volta, si giustificano appellandosi alle forme della conoscenza scientifica. E, al di là della autorità della scienza, non esiste più alcun diritto d’appello”[7]. Ma la scienza non è la tecnica.
Non costruiamo, non rischiamo, né sviluppiamo più un’idea: possiamo solo “articolarla”, “formularla” e con queste due parole banalizziamo un mondo di relazioni. È paradossale che tra i requisiti per la presentazione di una tesi di laurea sia indicato di svolgere una “ricerca originale”, quando ormai non crediamo più che gli autori che studiamo siano capaci di alcun tratto distintivo, visto che l’originalità è stata ufficialmente bandita: ora, i nostri autori “riformulano”, “riconfigurano” qualche precedente idea. Non è più il caso del lupo che mangia la pecora, se gli autori la cui opera suscita in noi simpatia non si occupano che di “riappropriazioni”, “ricontestualizzazioni”, “ingrassamenti”. Nel mondo del ri, il plagio non dovrebbe sorprenderci: è inscritto nelle nostre linee di ricerca, nelle nostre preoccupazioni estetiche e nel nostro linguaggio quotidiano. Lo premia anche lo SNI[8], fino a quando anche i bambini non si strozzeranno con tutte le parole degli altri di cui si sono appropriati e finalmente scoppierà lo scandalo.
Per l’università tutti gli autori sono pecore dentro a un recinto, però sono pecore “paradigmatiche”. Non studiamo più l’opera di un autore: la “lavoriamo” e la rendiamo “emblematica”. Esse non rappresentano più un esempio o un modello: sono un “paradigma che riformula e allo stesso tempo articola la rottura degli altri paradigmi”, e così spieghiamo allo stesso modo Cervantes e Joyce, Kafka e Aimé Césaire. Questa frase vuole confutare o condensare “teoricamente” la discussione di Los hijos del limo[9], i saggi di Eliot, fino all’Harold Bloom di L’angoscia dell’influenza[10], e ciò ci rende felici perché, senza citare gli autori “egemonici”, riusciamo a ridurre in un’unica frase un secolo di pensiero.
È curioso, ma il miracolo dell’individualità non offre nulla a chi si preoccupa di difendere le identità e le differenze. Forse per questo la nostra critica è di una orizzontalità generica e intercambiabile. Abbiamo semplificato sia le enormi che le sottili differenze che si presentano all’interno del corpo letterario in “negoziazioni tra le pratiche”, e crediamo che non sia necessario descriverle nella loro complessa singolarità, ma che basti riunirle nel cassetto delle “posizioni critiche”.
Se io scrivo un saggio sulle diverse forme di espressione di uno scrittore su Twitter o Facebook, il mio lavoro può essere giudicato dalla critica come uno “studio delle pratiche intellettuali in ambito culturale”. Se invece mi concentro sul ruolo di Francisco Asís de Icaza in Spagna e sul suo rapporto con Alfonso Reyes e gli altri esuli messicani, la critica potrebbe dire anche in questo caso che mi sono dedicata “allo studio delle pratiche intellettuali in campo culturale”. Probabilmente, il mio critico aggiungerà l’indicazione del secolo di cui mi sono occupata, come se la demarcazione temporale fosse l’unico incidente che distanziasse i miei lavori. Ma qualcuno più esperto potrebbe avvertire qualcosa e riuscire a equiparare i miei ipotetici appunti e quindi annotare nel suo paper[11]: “si tratta di una reinterpretazione che ripensa e articola, a partire dalla deterritorialità, l’emancipazione degli emarginati e il loro inserimento nei gruppi egemonici che detengono l’ambito culturale”. Se il saggio è letteratura, davvero possiamo chiamare questo letteratura? Abbiamo deciso che la letteratura è un oggetto di studio, un filone di ricerca e non una forma di comunione che prova a rispondere alle domande essenziali che riguardano ognuno di noi. Discettiamo sull’archivio di Reyes, ma non ci interessa il dramma, che ancora ci parla, dell’Ifigenia cruel[12].
Adoriamo le parole che finiscono per ale: “contestuale”, “paradossale”, eccetera. Oggi è tutto post, neo, dis. Andiamo alla ricerca di “dislocamenti”, “spossessamenti”, “risemantizzazioni”, ma anche di “autoreferenzialità”, “intermediazioni”, “deterritorializzazioni”, “riproduzioni della singolarità”, ma davvero sappiamo riconoscere la singolarità? Realmente ci interessa la letteratura? La letteratura e l’arte, a differenza della scienza, non sono né il “sapere” né la “tecnologia” ma, nonostante ciò, sono le uniche forme di conoscenza che ci redimono come specie. Ci rifiutiamo di riconoscerlo perché crediamo che esse non ci riguardino, mentre in realtà sono proprio ciò che ci salva. Giubilanti nell’inferno dantesco della ripetizione senza speranza, crediamo di contribuire al rovesciamento di un impero senza accorgerci che è questo stesso impero, mascherato, ad averci già colonizzato e ad aver fatto di noi i suoi agenti, i suoi ingenui missionari, i suoi miopi commissari che non vedono contraddizioni nel tradurre il mondo multiforme che diciamo di difendere ideologicamente seguendo un manuale di formule e schemi, rispettando un glossario esiguo che, riteniamo, parla da sé; mentre con quelle poche voci – incoraggiate, diffuse e premiate dalla burocrazia accademica – stiamo costruendo un recinto.
Nelle prime pagine di Il Castello leggiamo: “Questo villaggio appartiene al Castello, chi vi abita o vi pernotta, abita e pernotta, in certo modo, nel Castello. Nessuno ne ha il diritto senza il permesso del Conte. E lei questo permesso non ce l’ha, o almeno non l’ha mostrato”. Allora K. chiede: “In che villaggio mi sono smarrito? C’è un Castello qui?”[13]. Nel mondo accademico questa domanda è vietata. Viviamo nel castello, obbediamo agli ordini del conte e alla sua burocrazia, parliamo con le poche parole che sono “qualificate” a “interpretare” e tradurre il mondo. Il nostro lavoro si svolge in una fabbrica: la fabbrica dei fogli, che fuma giorno e notte, e sputa – in serie – le nuove scritture che squalificano e disprezzano il lavoro “non autorizzato”, indipendente, di qualunque critico artigiano del linguaggio, perché l’indipendenza e l’autonomia del pensiero sono ormai vietate per legge. Niente è più pericoloso per la burocrazia della vera critica, quella che dissente e discerne. Per scongiurare questo pericolo ci hanno convinto di una delle sue regole fondamentali: non possiamo prescindere dalla burocrazia perché “si basa su una preparazione specializzata, una suddivisione funzionale del lavoro e una costellazione di approcci metodicamente integrati. Se il funzionario smette di lavorare o se il suo lavoro subisce un’interruzione forzata, sopraggiunge il caos”[14]. Questa è una delle ragioni, continua Weber, per cui risulta utopistico credere nella possibilità di eliminare la burocrazia.
Nel regno della burocrazia, lo sappiamo, non esiste più aura vitale e noi dobbiamo provvedere anche a spazzarne via tutte le tracce, perché esse ci parlano di ciò in cui credevamo un tempo, e noi non abbiamo più intenzione di guardare in questo specchio che ormai riflette solo un mucchio di ossa. Proprio come l’alienato, il bambino o il selvaggio, che distruggono l’orologio per trovare il tic-tac, accompagnati dalla benevola mano delle istituzioni, abbiamo distrutto il linguaggio e i suoi tropi. Ma, a differenza di quelli, non lo abbiamo fatto per curiosità, ma perché incoraggiati da un sistema che teme tutte le allegorie, ritenendole sempre pericolose. Così ci hanno insegnato ad abbatterle e, in nome del loro Dio tecnocrate, vorrebbero farci credere che è questo il modo nel quale comprendiamo, e quindi spieghiamo, “problematizziamo” e allo stesso tempo serviamo il bene comune.
Noi siamo le nostre parole, il nostro linguaggio. Per questo motivo è essenziale per la burocrazia uniformarlo, annientarlo e propagare questo nuovo mistero, questa nuova fede che annuncia: “Finalmente leggiamo da un altro lato!”, anche se questo lato, noi non ce ne rendiamo conto, è quello del potere costituito. La letteratura è, è stata, una forma di dominio? No. Ma germoglia nella linfa della diversità ed è uno degli ultimi rifugi della libertà. Abbiamo distrutto tutti i suoi miti, tutte le sue metafore. Abbiamo assediato la letteratura e minato il potere sovversivo della lingua. Dall’alto, Attila ci osserva in sella a Othar, i cui zoccoli infuocati hanno già bruciato l’erba. Se essa tornerà mai a crescere, dipenderà solo dalla nostra lingua.
[1] Alfonso Reyes, Las nuevas artes, “Tricolor”, Città del Messico 16.IX.1944; poi raccolto in Los trabajos y los días, Obras completas, vol. IX, Fondo de Cultura Económica, Città del Messico 1959.
[2] José Lezama Lima, Rapsodia para el mulo, in La fijeza, Orígenes, L’Avana 1949; poi raccolta in Novela y Poesía completa, Obras completas, vol. I, Aguilar, Città del Messico 1975.
[3] Octavio Paz, El laberinto de la soledad, Cuadernos Americanos, Città del Messico 1950; Il labirinto della solitudine, traduzione di Giuseppe Bellini, Silva, Milano 1961.
[4] Daniel Sada, Porque parece mentira la verdad nunca se sabe, Tusquets, Città del Messico 1999.
[5] Acronimo del Consejo Nacional de Ciencia y Tecnología. Il Consejo è un organismo nazionale del governo messicano che ha il compito di promuovere e coordinare politiche indirizzate a favorire la ricerca scientifica e tecnologica e la circolazione delle conoscenze.
[6] Partido Revolucionario Institucional (Il Partito rivoluzionario istituzionale messicano).
[7] Theodore Roszak, The Making of Counter Culture, Doubleday & Company, New York 1969. Technocracy’s Children, primo capitolo del volume di Roszak, da cui è tratta la citazione, ha visto la sua prima pubblicazione con il titolo Youth and the Great Refusal sulla rivista “The Nation”, il 25 marzo 1968. Theodore Roszak, El nacimiento de una contracultura, traduzione di Angel Abad, Kairós, Barcellona 1970; La nascita di una controcultura, traduzione di Giorgio Barbaglia, Feltrinelli, Milano 1971.
[8] Sistema Nacional de Investigadores. Istituito dal Consejo Nacional de Ciencia y Tecnología, ha lo scopo di premiare e incentivare economicamente la produzione scientifica e tecnologica.
[9]Octavio Paz, Los hijos del limo. Del romanticismo a la vanguardia, Seix Barral, Barcellona 1974.
[10]Harold Bloom, The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry, Oxford University Press, New York 1973; La angustia de las influencias. Una teoría de la poesía, traduzione di Francisco Rivera, Monte Ávila, Caracas 1977; L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, traduzione di Mario Diacono, Feltrinelli, Milano 1983.
[11] In inglese nel testo.
[12] Alfonso Reyes, Ifigenia Cruel. Poema dramático, con un comentario en prosa, Saturnino Calleja Fernández, Madrid 1924.
[13] Franz Kafka, Das Schloss, Kurt Wolff Verlag, Monaco 1926; Il Castello, traduzione di Anita Rho, Mondadori, Milano 1948; versione poi confluita nel volume della collana I Meridiani che raccoglie i romanzi kafkiani: Franz Kafka, Romanzi, Mondadori, Milano 1969.
[14] Max Weber, ¿Qué es la Burocracia?, traduzione di Rufino Arar, Editorial La Pléyade, Buenos Aires 1977. La Bayerischen Akademie der Wissenschaften (Accademia bavarese delle scienze) è attualmente impegnata nell’imponente progetto di organizzazione e pubblicazione dell’intero corpus delle opere weberiane. L’edizione integrale delle opere di Weber, che alla sua conclusione consterà di 47 volumi, ha richiamato la collaborazione di ricercatori e studiosi di tutto il mondo e sarà completata entro il 2020, in occasione del centenario della morte dello storico e sociologo. Max Weber, Gesamtausgabe, Mohr Siebeck, Tübingen (in corso di pubblicazione). Per un’edizione italiana completa delle opere si veda: Max Weber, Economia e società, traduzione italiana di Tullio Bagiotti, Franco Casablanca, Pietro Rossi, Giorgio Giordano, Enrico Fubini, Pietro Chiodi, Edizioni di Comunità, 5 voll., Milano 1961-1980. Infine, per gli studi weberiani sulla burocrazia si veda anche: Max Weber, Sociologia del potere. Il potere e la burocrazia, traduzione di Paolo Carmignani, Del Bosco, Roma 1973.