In collaborazione con Gli Eccentrici,
di Alberto Chimal, “Latin American Literature Today”, traduzione di Maria Cristina Cavassa
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Speculative fiction è un termine vago. Attribuito allo scrittore statunitense Robert A. Heinlein – così come pure a parecchi altri prima e dopo di lui –, è stato inizialmente usato nel periodo compreso tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del secolo scorso. A quei tempi, se ne proponeva l’utilizzo per parlare di un sottogenere già esistente nella letteratura, nel cinema e nella cultura popolare degli Stati Uniti: si pensava che potesse essere un nome più appropriato per ciò che allora veniva chiamato science fiction.
Perché si credeva necessario ribattezzare una forma narrativa che già all’epoca esisteva da decenni e che ora sta per compiere un secolo?
Il concetto di science fiction fu inventato nel 1926 dall’editore Hugo Gernsback, a cui è intitolato il celebre premio Hugo, ed è ancora oggi il termine più diffuso quando si tratta di classificare un cospicuo numero di filoni della narrativa popolare.
Science fiction − o scientific narrative: narrativa interessata, spinta, resa possibile dal discorso scientifico − era, secondo la definizione di Gernsback, una specialità letteraria intenta a far conoscere i progressi scientifici per mezzo della rappresentazione di possibili futuri delle società umane; in tali tempi inventati, aggiornando un po’ i postulati del testo profetico, l’impronta del progresso materiale sarebbe stata ben visibile e in generale positiva.
La letteratura come succursale della divulgazione e mossa da un proposito didattico e positivista: l’aspirazione di Gernsback e della sua cerchia era di invogliare i giovani a studiare la scienza o l’ingegneria, e molte persone riferiscono in effetti di essere state spinte a farlo, specialmente nei paesi sviluppati.
Bisogna ricordare che, durante il XX secolo, l’idea di scrutare il futuro, di annunciarlo come desiderabile e inevitabile al tempo stesso, era assonante con le promesse dell’idea capitalistica del progresso, ereditata dalla Rivoluzione industriale del XIX secolo e dalla filosofia illuminista del XVIII, e la sua influenza è ancora presente in molte attività umane al di fuori delle arti, incluse la pubblicità e la politica.
Tuttavia, le opere etichettate come science fiction hanno cominciato quasi subito a uscire dai confini indicati dalla definizione di Gernsback. A suo tempo, la maggior parte delle pubblicazioni cosiddette di science fiction sembravano essere piuttosto racconti d’avventura, pieni d’azione ma con poco o nessun rigore scientifico. In seguito, altre opere collocate nello stesso sottogenere (poste sugli stessi scaffali delle librerie, pubblicate dalle stesse riviste) hanno messo in guardia i lettori contro i cattivi usi della tecnologia, hanno descritto mondi nei quali la ragione veniva negata o considerata irrilevante, si sono mischiate con altri sottogeneri senza interessarsi in alcun modo ai loro requisiti originari…
Si tratta in realtà di un processo che avviene per ogni sottogenere: qualsiasi insieme più o meno omogeneo di opere artistiche, che coincidono nella loro forma essenziale per alcune caratteristiche precise del loro contenuto e per la percezione che queste vengano riprodotte essenzialmente per il loro sfruttamento commerciale.
Se esiste effettivamente un mercato che permette agli scrittori specializzati in un sottogenere di mantenersi, questi tuttavia sono sottoposti a stimoli contraddittori: da una parte, sentono la necessità di andare avanti utilizzando forme e temi già “provati”, imitando “ciò che vende” così da non correre rischi, dall’altra sono spinti a “innovare”, a inventare nuove variazioni e approcci degli elementi già noti, per evitare la propria stagnazione e la noia del pubblico.
Tuttavia, nel caso della science fiction, parte dei suoi creatori e dei suoi lettori desiderava preservare almeno quello che si presentava come il suo maggior pregio: la capacità di dedurre, a partire dalle condizioni visibili del presente, le conseguenze future del nostro pensiero e delle nostre azioni e di speculare su di esse. Da questo desiderio nasce la proposta di ribattezzare l’intera science fiction come speculative fiction o almeno di separarne una parte di essa, attraverso la nuova denominazione, per dare risalto al suo contributo: ridefinendola come strumento non di promozione bensì di esplorazione delle cose a venire.
Un altro scrittore statunitense, Harlan Ellison, difese in modo memorabile il concetto di speculative fiction nell’emblematica antologia Dangerous Visions[1] (1967-69) da lui curata.
Il merito essenziale della science fiction, secondo Ellison, non consiste nella creazione di sogni o miti sul futuro, ma sta nella capacità di anticipare problemi e possibilità concreti della Storia e della vita umana.
Il meglio che la speculative fiction può offrire si trova nelle descrizioni del totalitarismo di George Orwell e Margaret Atwood, nelle riflessioni sul potere e sulla sessualità di J.G. Ballard, nelle considerazioni sui sistemi di governo e di pensiero di Stanislaw Lem, nella crisi dell’identità umana come la si vede in Philip K. Dick…
Sfortunatamente, il termine speculative fiction non ha attecchito. Dopo gli anni ’70 è caduto in disuso per decenni. Ciò a causa del fatto che gli impulsi contrapposti del sottogenere, al tempo stesso contrari e favorevoli all’originalità, hanno avuto una conseguenza paradossale: per molto tempo, nell’ambito della science fiction è stato considerato accattivante dare un’impressione di novità, di rinnovamento e persino di rottura radicale esclusivamente tramite la creazione di nuovi nomi e denominazioni.
Mentre principi, argomenti e personaggi iconici della fantascienza si facevano strada nel mainstream della cultura occidentale, fuori dai circoli specializzati di lettori, creatori ed editori, all’interno di quegli stessi circoli si moltiplicavano invece le suddivisioni, le varianti e le categorie di quella materia, come per dare agli appassionati un senso più forte di proprietà sulle loro storie preferite, impossibile da comprendere per i non iniziati.
Così, ogni tentativo (reale o simulato) di proporre qualche novità nel sottogenere ha ricevuto un suo nome: hard science fiction, space opera, new wave, cyberpunk, steampunk insieme a decine di altri nomi sono diventati argomento di discussione quotidiana tra i fan e speculative fiction è diventata una tra le tante altre etichette, dall’ambito incerto e dai limiti difficili da identificare.
Attualmente, sia science fiction sia speculative fiction sono considerati termini ombrello: classificazioni generali che includono quasi qualunque opera narrativa si voglia inserire al loro interno, purché queste attingano in qualche modo all’immaginario fantastico… e questo anche perché la comprensione del valore della speculazione ragionata si è ormai deteriorata e tutto ciò che è “fantasioso” o “non realistico” viene messo in un unico cumulo; cosa penserebbe Hugo Gernsback del fatto che Twilight di Stephanie Meyer e Il Trono di Spade di George R.R. Martin, per esempio, siano oggi considerati delle varianti della science fiction?
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Il fatto che la speculative fiction sia svanita fra così tanti sottogeneri e che si sia esaurita in quanto strumento di lettura e di analisi presenta un’inattesa utilità: permette di adoperarne l’etichetta per interrogarsi su testi, come quelli contenuti in questo dossier, provenienti dall’America Latina, ovvero da paesi e culture in cui non ci sono mercati davvero in grado di sostentare scrittori specializzati e dove l’immaginazione fantastica viene necessariamente utilizzata per altre ragioni.
Il mio primo incontro con questi concetti potrebbe essere, mi pare, analogo all’esperienza di molti altri autori latinoamericani, perché è avvenuto nel mio stesso paese: il Messico, una nazione perennemente arretrata e sottomessa allo sviluppo e ai dettami di altre nazioni, nella quale una cultura tradizionalista, verticista e classista offre pochi stimoli per speculare a proposito dei cambiamenti dello status quo o per apprezzare le virtù di qualsivoglia forma di arte popolare.
Sorprendentemente, il Messico – come altri paesi dell’America Latina – ha una sua tradizione di speculative narrative, che risale, come quella dei precursori più famosi del sottogenere in Europa, al XIX secolo, prima di Heinlein, di Ellison e dello stesso Gernsback.
In questo lasso di tempo, le idee di progresso, anche se con minor forza e minor ottimismo, hanno spinto vari autori a porsi domande sul futuro.
Nessun autore locale è stato influente, acclamato o prolifico come Mary Shelley o Jules Verne, e anzi tutti spesso partivano col prendere in giro l’idea stessa che qualcuno potesse o volesse immaginare un avvenire differente per un paese come il mio. Dal racconto México en el año 1970 di Sebastián Camacho y Zulueta (1844)[2] fino ai romanzi Mejicanos en el espacio di Carlos Olvera (1968)[3], Memorias de un delfín di Manú Dornbierer (1996)
[4] o El dedo de oro di Guillermo Sheridan (1996)[5], molte tra le più efficaci narrazioni di questa tradizione sono parodie o satire: ritratti caricaturizzati o ipertrofizzati dei costumi nazionali, oppure racconti amari della realtà quotidiana narrati da prospettive insolite, che permettono di scoprire aspetti inusuali e sorprendenti di fatti apparentemente banali. I bersagli di questi libri solitamente sono la corruzione delle istituzioni, le difficoltà economiche e la mancanza di libertà politica, deplorati o celebrati con una specie di cinica rassegnazione.
Vale la pena menzionare qui queste opere non soltanto per il loro valore, ma anche perché stiamo assistendo oggi a una frattura in questa tradizione come nelle altre della nostra regione del mondo: un punto di svolta dovuto alle necessità della nostra realtà concreta, della nostra scrittura e della nostra immaginazione, qui.
In questo processo sono coinvolti scrittori molto giovani ma anche altri con decenni di attività alle spalle, stimolati dagli eventi attuali, e in particolare dalla crescita delle ideologie estremiste a cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
Come sappiamo – e come sia l’Europa sia gli Stati Uniti devono constatare quotidianamente –, discorsi che sembrano sradicati dalla Seconda guerra mondiale si sono spostati dai margini delle società occidentali (dalle zone della scorrettezza, della vergogna, di ciò che è moralmente riprovevole) fino ai loro centri, avendo conquistato un potere politico o un appoggio maggiori di quelli mai avuti negli ultimi decenni. Sappiamo anche che molti di questi discorsi non sono diretti soltanto contro popolazioni svantaggiate e confinate in particolari regioni, ma sono rivolti letteralmente contro gli abitanti di interi paesi.
Qui occorre che torni a citare il Messico, perché si tratta, naturalmente, di un esempio ovvio: in un ironico contrappasso per il razzismo classista del mio paese, nel quale il colore della pelle viene massicciamente associato allo status sociale ed è stato usato come giustificazione per prolungare secoli di disuguaglianza ed esclusione, Donald Trump, l’attuale presidente degli Stati Uniti, ha iniziato la sua campagna elettorale descrivendo uniformemente i messicani in termini aggressivi, senza separare (come qui viene fatto ancora ossessivamente) i bianchi da noi che non lo siamo, le “buone famiglie” dalle altre.
A Trump non importa dei nostri pregiudizi e delle nostre divisioni quando si tratta di infiammare i suoi sostenitori con il suo discorso razzista e xenofobo: tutti noi messicani, senza eccezioni, siamo i cattivi, la minaccia che cerca di invadere e occupare il loro territorio.
La sola esistenza di questo discorso dovrebbe bastare per farci riconsiderare gran parte della cultura che ci arriva dagli Stati Uniti e che milioni di noi, specialmente i più giovani, hanno da sempre considerato (anche in maniera acritica e colonizzata) parte delle loro vite.
Il razzismo e l’esclusione dell’altro, il famoso “eccezionalismo americano”, sono anche più antichi di Trump e del suo regime.
Già solo nell’insieme informe della speculative fiction dovremmo rivedere numerose opere che abbiamo consumato nell’arco dei decenni e chiederci in quante di esse le divisioni tra il bene e il male, la rettitudine e l’errore siano in realtà tracciate su distinzioni razziali.
Un esempio evidente si trova nel sottogenere della narrativa zombi, popolare dalla fine degli anni ’70, e che attualmente non si limita a ruotare intorno alla perdita del benessere causata dall’invasione di esseri mostruosi, ma dipinge questi ultimi con tratti che sembrano ripresi e ingigantiti dalla retorica estremista.
Gli esseri ripugnanti, senza capacità di raziocinio, che possono scalare ogni ostacolo e che letteralmente si rovesciano sulle loro vittime in film come World War Z di Marc Forster (2013) potremmo benissimo essere noi, e quindi in linea teorica potremmo essere contenuti soltanto con un alto, lunghissimo muro e una campagna di espulsioni di massa.
Inoltre, risulta che il discorso estremista trova non soltanto ispirazione ma anche prototipi, e persino veri e propri ideologi, nella speculative narrative.
Agli esempi più noti, come quello di Ayn Rand, scrittrice di origine russa ai cui romanzi fanno riferimento i politici di destra della linea dura per difendere in modo articolato l’avidità individuale e imprenditoriale, si è aggiunta negli ultimi anni l’opera di un autore francese precedentemente poco conosciuto: Jean Raspail, il cui romanzo Le camp des saints (1973), tradotto in spagnolo come El desembarco[6], è uno dei libri di riferimento di Steve Bannon, l’imprenditore dei media che fino a pochi mesi fa è stato stratega della Casa Bianca e attualmente è un fermo sostenitore dei movimenti di estrema destra in Europa.
Sulla scia di libri che all’epoca sembravano anomali – come anche la distopia cattolica Padrone del mondo di Robert Hugh Benson (1907)[7], – il romanzo di Raspail descrive una presunta invasione dei paesi europei da parte di migranti asiatici.
Questi, descritti come esseri meno che umani, un’orda selvaggia dedita al vizio e alla distruzione, si propongono di porre fine alla civiltà cristiana e sfruttano la debolezza dei paesi occidentali per spingerli ad aprire le loro frontiere.
La mitologia dei diversi gruppi razzisti che sono diventati famosi online contiene, se non proprio dei riferimenti precisi a questi testi, certamente le argomentazioni che da essi sono state legittimate.
I futuri distopici possono non soltanto rappresentare condizioni di oppressione basate su tendenze reali, ma anche dare corpo a fantasie di odio, al complesso di “minoranza” di grandi masse.
(La recente manovra del governo statunitense di “militarizzare” la frontiera con il Messico, sebbene rappresenti più un gesto simbolico, sembra una rivisitazione se non la replica di alcuni brani di Raspail, a cominciare proprio dalla ragione che apparentemente ha ispirato la misura: la notizia che un gruppo di diverse centinaia di migranti centroamericani, in maggioranza donne e bambini, stavano percorrendo il Messico in direzione della frontiera settentrionale in cerca di asilo negli Stati Uniti. Chiamato “carovana”, il gruppo di migranti è stato ingigantito dai media di destra come Fox News e rappresentato come un’immensa orda raspailiana).
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Va detto questo: il vuoto di futuro che si è fatto spazio nell’immaginazione occidentale dopo la crisi dell’idea di progresso, e di cui si continua a discutere regolarmente dalla fine del secolo scorso, non dev’essere riempito dalle storie dell’estremismo, che in fondo non vedono altro futuro all’infuori di un conflitto apocalittico, impossibile da risolvere se non con la distruzione assoluta, contro un nemico parzialmente o totalmente immaginario, ma indentificato nei corpi di persone assolutamente reali.
Tra le possibili ragioni, oltre dalla stabilità o dai benefici economici che diventano sempre più irraggiungibili nei paesi in via di sviluppo, mi sembra che gli attuali scrittori specializzati in speculative fiction latinoamericana traggano impulso a scrivere dal fatto che è possibile e necessario resistere alla confisca, alla riduzione, alla semplificazione del futuro che i diversi estremismi vorrebbero.
Nel fatto che non tutti continueremo a privarci di reclamare per noi stessi le possibilità dell’immaginazione e, in particolare, quelle che potrebbero essere utili per interrogarci sul nostro futuro, sui nostri futuri individuali.
Nei testi che vengono qui presentati si possono vedere varie possibili forme di ricomposizione dei postulati della speculative narrative e del loro riadattamento ad altri contesti e ad altre necessità, non riconosciuti né rappresentati dalla produzione che ci arriva dall’estero.
Che non la sostituiscono dunque, ma la completano.
[1] Harlan Ellison, Dangerous Visions, Doubleday & Company, New York 1967; AA. VV., Harlan Ellison presenta Dangerous Visions, traduttori vari, Mondadori, Milano 1991.
[2] Pubblicato con lo pseudonimo di Fósforos Cerillos sulla rivista “El Ateneo Mexicano”, curata dell’associazione El Ateneo Mexicano e fondata a Città del Messico nel 1840.
[3] Carlos Olvera Avelar, Mejicanos en el espacio, Dóigenes, Città del Messico 1968.
[4] Manú Dornbierer, Memorias de un delfín, Grijalbo, Città del Messico 1996.
[5] Guillermo Sheridan, El dedo de oro, Alfaguara, Madrid 1996.
[6] Jean Raspail, Le camp des saints, Laffont, Parigi 1973; El desembarco, Plaza y Janès, Barcellona 1975; Il campo dei santi, traduzione di Fabrizio Sandrelli, Il cavallo alato, Padova 1998.
[7] Robert Hugh Benson, Lord of the World, Dodd, Mead and Company, New York 1907; El amo del mundo, traduzione di Juan Mateos de Diego, Gustavo Gili, Barcellona 1909; Padrone del mondo, traduzione di Paola Eletta Leoni, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1977.