“El mundo sensual”, il saggio introduttivo di Valerie Miles a “Tierra”, il secondo numero della serie di “Granta en español” dedicata ai quattro elementi (Agua, Tierra, Aire y Fuego).
di Valerie Miles, “Granta en español”, traduzione di Cecilia Raneri e Serena Talento.
L’impronta di una mano, probabilmente femminile, fu per più di trentamila anni la muta testimone della quiete di una caverna preistorica. Fino all’inafferrabile istante in cui questa mano, immobile nell’aria come una freccia rupestre, colpì il bersaglio: l’occhio di Jean-Marie Chauvet, il 18 dicembre del 1994. E il tempo si ripiegò su sé stesso. “Sono stati qui”, sospirò quando la freccia della fortuna raggiunse le sue sopracciglia aggrottate. “Poche le fronti capaci, come quella di Shakespeare o Melantone, di salire così in alto e di scendere così in basso che gli occhi risultano laghi montani immoti, eterni, limpidi e al di sopra, tra le rughe della fronte, par d’essere sulle tracce dei palchi di pensieri che scendono ad abbeverarsi, come i cacciatori degli altopiani scozzesi dietro all’orme del cervo sulla neve”[1], scrive Melville.
Una sequenza di impronte di bambino giace intatta nella polvere della caverna e, accanto ad esse, quelle di un lupo. Il bambino fu dunque la sua preda? O stavano giocando insieme? Le impronte fantasma sono rimaste fossilizzate come un enigma posto alle ere successive. Un cavallo dipinto con otto zampe, un rinoceronte con diversi corni che ne suggeriscono il movimento, come in un’animazione. Le pareti non sono regolari e gli artisti approfittarono del dinamismo delle forme e della luce instabile delle torce per infondere ai disegni movimento e vivacità, come in uno zootropio primitivo. Sono fuori dal tempo, come le stesse pietre. Le pitture murali sono finestre che rappresentano il mondo esterno, non sono specchi. Nella grotta di Chauvet c’è solo un caso di rappresentazione umana, la figura di una donna dipinta su una stalattite nello stile delle veneri di Willendorf e di Hohle Fels. Insieme a lei c’è un toro. Il Minotauro dalla nebbia della Preistoria! Che il labirinto sia stato il primo sogno? Un luogo magico dove è possibile incontrare sé stessi, il cui centro è da tutte le parti e la circonferenza in nessun luogo. “Non attender l’urto / del toro umano la cui strana forma / plurima colma d’orrore il groviglio / dell’infinita pietra che si intreccia”[2], scrive Borges. L’immaginazione primordiale infonde vita a tutto questo, si tratta di ponti tesi dai primi artisti sopra l’abisso del tempo. Il Toro, uno dei segni di terra assieme al Capricorno e alla Vergine, fu dotato dai primi astrologi delle qualità della fermezza e della sensualità: i terrestri si relazionano con la vita attraverso i sensi; la vista, il suono, il tatto, l’olfatto e il gusto.
Apriamo questo numero dedicato alla Terra con il celebre saggio di Judith Thurman sulla grotta di Chauvet, che ispirò il documentario di Werner Herzog, Cave of Forgotten Dreams. Le grotte di Altamira, Lascaux e Chauvet sono considerate una sorta di Cappella Sistina preistorica. La pietra cieca e la curiosa mano[3]. Un’artista ha lasciato una serie di impronte di mani in positivo. Sappiamo qualcosa di lei per via del suo mignolo piegato, che ha permesso agli scienziati di documentare il suo passaggio attraverso il labirinto, il suo tragitto. La mano, non solo l’occhio, ha i suoi sogni e la sua poesia. Ma lei, che cosa sognava? I suoi sogni, come accade ai miei, si dissolsero con il trascorrere della giornata? Provò paura? Forse gli individui del Paleolitico dipingevano paesaggi come i romantici tedeschi o i trascendentalisti americani, per dare senso al loro mondo agli albori del tempo. Per Emerson, ciò che c’è dietro e davanti a noi è insignificante in confronto a ciò che c’è dentro di noi.

Particolare delle pitture rupestri della grotta di Chauvet
Fu solo alla fine del XVIII secolo che la geologia diventò una disciplina scientifica dedicata a studiare la storia della Terra. Le implicazioni scientifiche del tempo geologico riconoscono che la famosa locuzione di Eraclito, “tutto scorre, nulla permane”, si applica anche alla Terra: la sua densità non è statica durante la rotazione, ma fluisce senza mai smettere, dal lento movimento dell’erosione e della sedimentazione fino ai cataclismi dei vulcani e delle valanghe. Il mondo sotto i nostri piedi si muove, si modifica, cambia continuamente. I minerali e i depositi sotterranei crescono come organismi. Se non ci fossero cambiamenti nell’universo non ci sarebbe il tempo, ricorda Aristotele[4]. Però la misura del movimento dipende da una mente capace di contare. Il folclore tedesco assicura che è nelle montagne che è custodito il tempo, coagulato nella roccia, trattenuto per sempre. Se non esistesse una mente capace di contare, esisterebbe il tempo?
Il vecchio Aristotele dimostrò con la ragione che la Terra è una sfera e fece propria in Del cielo l’affermazione di Empedocle secondo la quale il mondo è composto da quattro elementi: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Elementi messi in gioco da due forze motrici, l’amore e la discordia. L’amore! E la discordia! Si trattava di una personalità eccentrica, in effetti Empedocle andava in giro con vestiti color porpora e sosteneva di essere un dio. Il suo ultimo gesto fu gettarsi nel cratere dell’Etna, sebbene non corrispondesse del tutto all’archetipo della vergine sacrificale. Però chissà che il fantasma di Empedocle vestito di porpora non stia vagando nei condotti vulcanici per i quali si aggirarono il professor Lidenbrock e Axel in Viaggio al centro della Terra[5] di Jules Verne. Le loro avventure cominciano quando si immergono nello Snaefellsjökull in Islanda e terminano quando riemergono a Stromboli.
Il gentile, anche se impaziente, professore tedesco di Verne – dopo la guerra franco-prussiana i tedeschi di Verne non erano più personaggi simpatici – si rifà ai nuovi poeti geologi e ai collezionisti di minerali dell’epoca: Goethe, Tieck e Novalis. Per i romantici la Terra viveva un continuo divenire e le pietre erano le sue lapides literati[6]. Nella sua visione cosmica Goethe condensò il senso delle rocce primitive: “Qui tu stai su un fondamento che sorge dai recessi della terra […] In questo momento, le interiori forze […] della terra hanno immediatamente effetto su di me, gli influssi del vicino cielo mi aleggiano intorno”[7]. Per Goethe tutti i fenomeni naturali conservano tra di loro una relazione precisa e questa idea rimase impressa negli scritti sulla natura di Emerson: “Chi può indovinare quanta fermezza la roccia sferzata dal mare ha insegnato al pescatore?”[8]. In Heinrich von Ofterdingen, Novalis scrive: “‘Voi [minatori] siete, direi quasi, astrologhi al rovescio disse il romito. ‘Come questi scrutano senza distrarsi il cielo e vagano per i suoi spazi sconfinati: così voi volgete il vostro sguardo alla terra e investigate la sua architettura. Quelli studiano le forze e gli influssi delle stelle, e voi indagate le forze delle rupi e delle montagne, e le molteplici reazioni degli strati di terra e di pietra. A quelli il cielo è il libro del futuro, laddove a voi la terra offre testimonianze del mondo originario’”[9]. La tenue ragnatela della piramide[10].

Particolare delle pitture rupestri della grotta di Chauvet
Nel suo saggio El lenguaje de las piedras: experiencia mística y naturaleza[11], Victoria Cirlot menziona lo stravagante collezionista di pietre con il quale Caillois sentiva di avere un certo legame spirituale: il poeta, calligrafo e governante Mi Fu, nato nel 1051. Era anche conosciuto come “Testa al contrario”. Proprio come Empedocle, usava vestiti stravaganti, abiti “vintage” della dinastia Tang, anche se lui viveva durante la dinastia Song. I suoi copricapi erano così alti che non entravano nella portantina. Senza scomporsi, ne fece togliere il tetto, ed è facile immaginarselo andare in giro come un gallo con la cresta rossa che spunta dalla parte superiore dell’abitacolo. Ciò che ispirò il soprannome da matto fu la sua passione per le pietre “strane”, che considerava più preziose di libri e dipinti. Quando trovava una pietra strana, e anche brutta, per conservarla come un oggetto da venerare, chiedeva al suo servitore di portare gli attributi ufficiali e procedeva a dare alla pietra il trattamento Shi Zhang o fratello maggiore. Giocava con le sue pietre tutto il giorno, conversava con loro e non si occupava delle sue responsabilità. Lasciate che il vecchio giochi con le pietre, disse Goethe.
Breton attribuì alle pietre la facoltà del linguaggio, scrive Cirlot, la capacità di parlare a chiunque fosse disposto ad ascoltarle. “Il mistero della natura continua potente davanti allo sguardo moderno, che non si esercita solo nei labirinti di asfalto, ma soltanto un occhio interiore, quello dell’immaginazione, può inabissarsi nei suoi segreti insondabili, disegnati su superfici speculari che hanno la virtù di riflettere, allo stesso tempo, le cascate interiori del soggetto che le contempla”. Proponiamo immagini delle pietre della collezione dello stesso Caillois con una domanda patafisica: cosa vedi?
Forse, come suggerisce Borges, la storia universale è la storia di alcune metafore. Pietra come suono e simbolo, il rumore dei ciottoli levigati. Gaston Bachelard ricorda il poeta russo Biely e il nero ululare della roccia. Nel paesaggio reso dinamico dalla pietra dura, dalla roccia di basalto o di granito, solca l’abisso un nero fragore. La roccia grida. Lo studio dell’archeoacustica ci offre una nuova prospettiva sulla relazione dell’essere umano primitivo con il suono, imbevuto di magia e di senso del sacro. Le caverne non erano solo dipinte, ma venivano suonate come strumenti. Dove c’è arte rupestre, ci sono anche letti di pietra che cantano o strutture che furono costruite per il suono del vento.
Chissà se il guazzabuglio inciso sulle pietre di Roger Caillois contiene in sé uno dei codici segreti dell’universo? I poeti, come paleografi, cercano relazioni segrete e speculari tra le cose, i cristalli occulti di un caleidoscopio infantile, la voce che il pastore udì sulla montagna, le prime ninne nanne, l’enigma di una lastra di granito galiziano, una scogliera delle Asturie, come la ruga sulla fronte della Sfinge. Niente è reale, non ci sono certezze, come sanno tutti gli esiliati, e senza dubbio le pietre che cantano si trovano sparse per tutto il mondo senza che nemmeno si sappia come ci siano arrivate: Pennsylvania, Bassa California, Canberra, Évora, Stonehenge.
“Ravviso là l’origine dell’invincibile attrattiva della metafora e dell’analogia, le ragioni di uno strano e permanente bisogno d’identificazione”, scrive Caillois, “Mi trattengo solo dal sospettare un antico e diffuso magnetismo, il richiamo del centro, il ricordo oscuro, quasi annullato, oppure il presentimento, inutile in un essere così insignificante, della sintassi generale”.
[1] Herman Melville, Moby-Dick o la balena (1851), traduzione di Ottavio Fatica, Einaudi, Torino 2015.
[2] Jorge Luis Borges, Elogio dell’ombra (1969), traduzione di Francesco Tentori Montalto, Einaudi, Torino 1971.
[3] Valerie Miles inserisce qui una velata citazione alla poesia Cosas di Jorge Luis Borges, raccolta nella silloge El oro de los tigres (Emecé, Buenos Aires 1972). In italiano si trova in: Jorge Luis Borges, L’oro delle tigri, traduzione di Juan Rodolfo Wilcock e Livio Bacchi Wilcock, Rizzoli, Milano 1974.
[4] Probabilmente l’autrice si riferisce alla frase: “il tempo non è senza movimento e mutamento”, tratta da Aristotele, Fisica, IV II.
[5] Jules Verne, Viaggio al centro della Terra (1864), Treves, Milano 1874.
[6] Espressione che fa riferimento al tropo romantico della lettura delle scritte rinvenute su pietre. Novalis, nel suo Enrico di Ofterdingen, sviluppò una propria litologia storica nella quale parlava di historische Oryktognosie (mineralogia storica) e di messaggi in codice scritti nelle pietre.
[7] Johann Wolfgang Goethe, Sul granito (1784), in L’albero, il bruco e la farfalla. Sulla metamorfosi dei sistemi (da Goethe a Marx), a cura di Pier Giuseppe Milanesi, Mimesis, Milano 2002.
[8] Ralph Waldo Emerson, Natura (1836), traduzione di Igina Tattoni, Donzelli, Roma 2010.
[9] Novalis, Enrico di Ofterdingen (1802), traduzione di Tommaso Landolfi, Adelphi, Milano 2015.
[10] Seconda velata citazione dalla poesia Cosas di Jorge Luis Borges. Si veda nota 3.
[11] Victoria Cirlot, El lenguaje de las piedras: experiencia mística y naturaleza in La visión abierta, del mito del Grial al surrealismo, Siruela, Madrid 2011.