Una selezione di libri contro l’odio scelti e raccontati da scrittori, intellettuali, editori, traduttori e operatori culturali di tutto il mondo

 

Siamo i custodi di un’isola verdissima e feconda, per sua natura infinita e senza confini. Siamo i custodi dell’isola delle parole, del sapere, della conoscenza, delle lingue, delle scritture e delle tradizioni. Poter leggere nella nostra lingua madre un testo scritto in una lingua che non conosciamo è un atto magico, che non conosce limiti. Ogni giorno editori, traduttori, librai, grafici, giornalisti, operatori culturali lavorano per rendere possibili atti senza confini, per diffondere parole che vengono da ovunque nel mondo, per accorciare le distanze, avvicinarci e permetterci di imparare gli uni dagli altri. Per questo abbiamo pensato di chiedere alle persone che Grafias ha incontrato durante il suo percorso di ricerca di consigliarci e raccontarci un libro, una lettura oggi più che mai necessaria per contrastare la montante nebbia dello spirito, permeata di paura e diffidenza, odio e rifiuto che vediamo ogni giorno avanzare. Un libro che venga da ovunque nel mondo, da indirizzare idealmente a coloro che alzano muri e recinzioni, che hanno paura dei colori e delle loro stesse parole pronunciate in lingue che non conoscono, che scacciano e respingono, che separano e non danno accoglienza, che si voltano e non comprendono. Una lettura che ci ricordi ancora una volta che quelle linee tracciate sulle carte geografiche servono a indicarci i limiti della nostra conoscenza e i territori che dobbiamo ancora esplorare e non ciò da cui ci dovremmo guardare e difendere. Un’opera che possa aiutarci a ricordare che il mondo è uno e indivisibile, in un momento storico in cui uomini di potere, politici, esseri miopi e scellerati vogliono creare nuove barriere invece che abbattere quelle già esistenti, rendere invalicabili confini e frontiere, negare la parola, il riconoscimento e dunque la vita altrui invece di lavorare per una nuova società universale, fonte di sviluppo e benessere per chiunque voglia farne parte.

 

 

Pierre Assouline

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Don Chisciotte! vorrei dire, naturalmente… E non importa la traduzione, se quella di Jean Canavaggio (Folio) o Aline Schulman (Points). La nostra epoca ha crudelmente bisogno di antieroi di tale tempra e di questa qualità di utopie e sogni. Non è certo stato il primo a condurci all’autoconsapevolezza, ma Cervantes è il solo ad averlo fatto con questa potenza comica, in un’odissea sotto forma di parodia, a meno che non si tratti di una parodia sotto forma di odissea. Per quanto mi riguarda, quello che ho fatto mio di tutto questo è l’ironia devastante, il distacco, e anche la morale del fallimento, giacché in essa vi è un qualcosa di fecondo, ma prima di ogni altra cosa la lezione di libertà che ancora oggi Cervantes dona agli scrittori. È lui che osa e che non si sente legittimato che da sé stesso, mentre noi siamo così rigidi, intrappolati nei nostri canoni, nelle nostre citazioni e nei nostri criteri, lui ci dice di andare e noi ci inoltriamo anche se il donchisciottismo è diventato una sorta di “locanda tipica spagnola”. Devo ammetterlo, mi lusingo di leggerlo e rileggerlo (impossibile da dimenticare l’orgoglio di Borges: “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; / io sono orgoglioso di quelle che ho letto”), perché è un classico senza naftalina, un’opera che non ha mai smesso di dirci ciò che ha da dire. Don Chisciotte ci parla ancora e per questo piacere che permane e si rinnova nel tempo la nostra gratitudine è eterna. Tuttavia, in spagnolo il suffisso “te” suona beffardo. Povero Quijote! Ma in francese suona anche peggio: Chisciotte suona come “Chochotte”. Sono stufo! Di questo nome proprio diventato di senso comune, i francesi ne hanno fatto un sinonimo di cavaliere errante, stravagante se non un pazzo. Ma è così difficile essere chisciotteschi al giorno d’oggi, in un’epoca allergica alla grandezza, in cui non si osa essere più grandi di sé stessi. Non ha cambiato il mondo, come avrebbe voluto, ma ha cambiato la sua rappresentazione e ciò non ha prezzo. E tutto questo sarebbe basato solo su un’illusione che egli creava mentre era impegnato nelle sue peregrinazioni? E dire che io ancora oggi non so se la Spagna è nata con Don Chisciotte, o se è stato lui a inventarla…

 

Miguel de Cervantes, El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, per le arti tipografiche di Juan de la Cuesta, Madrid 1605 (prima parte), 1615 (seconda parte); L’ingegnoso Cittadino Don Chisciotte della Mancia, traduzione di Lorenzo Franciosini Fiorentino, presso Andrea Baba, Venezia 1622 e 1625; Don Chisciotte della Mancia, traduzione di Vittorio Bodini, I Millenni, Einaudi, Torino 1957.

Pierre Assouline è scrittore, giornalista e autore di diversi programmi culturali per la radio e la tv francese. Ha firmato importanti biografie dedicate fra gli altri a Georges Simenon, Gaston Gallimard e Henri Cartier-Bresson. Nel 2004 ha fondato uno dei blog letterari più seguiti di Francia, “La République des livres”, da cui Grafias ha tradotto l’articolo a sua firma Dalla lettura angosciosa alla nevrosi della correzione.

 

 

Anaïs Beaulieu e Alexis Coulais

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Fingerprint è un libro d’artista di Andrea Anastasio che fa parte della collezione dei libri fatti a mano di Tara Books. Fare un libro a mano è già di per sé una sorta di impegno nei confronti del progetto del libro. E volontariamente ripeto tante volte la parola “libro”. Carta e rilegatura sono fatte a mano e la stampa è in serigrafia. Oltre a questi elementi, la stessa illustrazione viene fatta a mano perché è realizzata con le impronte digitali. Usare le impronte digitali per creare illustrazioni riflette un bisogno di creazione molto primitivo, presente in ognuno di noi. Ma non si tratta solo di questo. Le impronte digitali si riferiscono anche all’identità: quando superiamo un confine, ad esempio, la polizia ci chiede le impronte digitali. È un modo per riconoscere ciascuno di noi. Perciò il senso di questo libro si collega all’identità in modo primitivo. Le impronte digitali, inoltre, ci dimostrano ancora qualcos’altro: anche se siamo tutti diversi, viviamo tutti nello stesso mondo, e questo mondo non deve avere alcun tipo di confine per le nostre identità. La lezione che ci dà questo libro è che dovremmo provare a vivere insieme nonostante tutti i limiti e le differenze.

 

Andrea Anastasio, Fingerprint, Tara Books, Chennai 2009.

Anaïs Beaulieu e Alexis Coulais sono gli editori della casa editrice francese Les Trois Ourses a cui Grafias ha dedicato l’intervista Les Trois Ourses, il progetto francese che sviluppa la sensibilità artistica dei bambini reinventando l’idea di libro.

 

 

Michelle Bailat-Jones

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Sebbene ora abbia quasi vent’anni, trovo questa raccolta di saggi molto confortante in questo preciso momento storico. Non c’è niente di troppo politico nel progetto della Hirshfield. Scrive di linguaggio e traduzione, e attraverso una bellissima discussione poetica ci ricorda di prestare silenziosa e prudente attenzione alle parole che condividiamo con gli altri e di lavorare diligentemente per vedere e comprendere il mondo intorno a noi e le connessioni umane che ci legano l’uno all’altro.

 

Jane Hirshfield, Nine Gates: Entering the Mind of Poetry, Harper Collins, New York 1997.

Michelle Bailat-Jones è editor della rivista “Necessary Fiction”, da cui Grafias ha tradotto l’articolo Il magico mondo della letteratura haitiana: un’introduzione.

 

 

Chiara Caradonna

dieinsel_thelenScelgo il romanzo Die Insel des zweiten Gesichts (L’isola del secondo volto) di Albert Vigoleis Thelen, pubblicato nel 1953, non solo perché è il grande romanzo dimenticato della storia della letteratura tedesca. Basato in gran parte sull’esperienza dell’autore, il libro narra, con grande ironia e senso dell’umorismo, le vicende e le vicissitudini di una coppia – lui scrittore e traduttore, lei (di origini in parte maya) grande lettrice e, tra le varie cose, insegnante di lingue –, che negli anni venti si trasferisce a Mallorca per motivi familiari e sceglie l’isola come luogo di esilio volontario dopo l’avvento del nazismo e fino alla guerra civile spagnola, che costringe i due a rifare le valige. In uno stile brillante, colto e raffinato Thelen descrive la vita dello straniero, dell’immigrato disoccupato, costretto a barcamenarsi tra mille lavoretti e stratagemmi per sopravvivere, ma che da questa posizione incerta e precaria dispone di una prospettiva unica sugli abitanti e sulla vita dell’isola, ricca di personaggi eccentrici e, dal 1933, anche di esuli di vario genere e provenienza. La critica della deriva politica europea della prima metà del Novecento è esplicita e univoca, e l’eccentricità (geografica e intellettuale) è forse l’unico modo per preservare la propria integrità morale.

 

Albert Vigoleis Thelen, Die Insel des zweiten Gesichts, Eugen Diederichs Verlag, Düsseldorf 1953; L’Ile du second visage, traduzione di Dominique Tassel, Fayard, Parigi 1988; The Island of Second Sight, traduzione di Donald O. White, Galileo Publishers, Cambridge 2010.

Chiara Caradonna ha tradotto per Grafias l’articolo Il romanzo è un rischio.

 

 

Gianluca Cataldo

breviario-mediterraneoSecondo un proverbio turco Dio ha dato il mare agli infedeli. E Matvejević, che è un infedele della letteratura, se l’è preso. Di esserlo ne è consapevole fin dall’inizio del suo breviario sul sesto continente, quando precisa che il punto di partenza si fa via via meno importante, fino a essere del tutto confuso al momento dell’approdo. E così, questo fallito tentativo di afferrare compiutamente l’inafferrabile può essere tutto, romanzo, saggio, catalogo, come tutto è il Mediterraneo che racconta: porti, città-porti, moli, i suoi abitanti (per i quali parlarne è superfluo, per i quali è sempre sottinteso), isole, penisole, capitanerie di porto, parole, onde e venti, le correnti (le sue vene), le coste, i golfi che per vanità si fingono mari, quei templi che sono i suoi fari, gli odori – che si esaltano nei suoi mercati – le saline (simili un po’ ovunque), le olive reliquie e rughe, mestieri, cordame. I suoi cimiteri, quando non è esso stesso tomba d’acqua. Addirittura le boe, che dimostrano quanto la narrazione sia essenziale, quanto l’inafferrabile abbia bisogno di mimi o di scrittori, gli unici che possono coglierlo persino in una boa. Poi le carte, perché ai nostri occhi e appunti si aggiungano quelli degli altri; e infine un glossario, per ricordarci che mediterraneus vuol dire circondato dalla terra, mare della vicinanza, mare diverso dall’illimite che sono gli oceani, i mari delle distanze. E se tutte le narrazioni del Mediterraneo rischiano di rendere malattia la sua mitologia, Matvejević combina il lirismo con il rigore compilativo, senza sapere nemmeno quale sia il motivo che lo spinge a “ricomporre continuamente il mosaico mediterraneo”. Ma il suo tentativo non può che essere parziale, ha bisogno di essere costantemente ampliato, di nuove edizioni, di ricerca e pazienza, di uno sforzo inesauribile che si sfinisce sempre in uno dei più bei fallimenti che, infedeli della lettura, ci è possibile leggere: un libro senza confini su un mare che, di confini, ne ha troppi.

 

Predrag Matvejević, Mediteranski brevijar, Graficki zavod Hrvatske, Zagabria 1987; Breviario mediterraneo, Garzanti, Milano 1991.

Gianluca Cataldo ha tradotto per Grafias l’articolo I nuovi terrificanti.

 

 

Fabiano Curi

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Perché cose del genere non si ripetano.

Imre Kertész, Sorstalanság, Magvető Könyvkiadó, Budapest 1975; Essere senza destino, traduzione di Barbara Griffini, Feltrinelli, Milano 1998.

Victor Klemperer, Vor 33 nach 45: gesammelte Aufsatze, Akademie-Verlag, Berlino 1956; raccolti in Testimoniare fino all’ultimo: diari 1933-1945, traduzione e cura di Anna Ruchat e Paola Quadrelli, Mondadori, Milano 2000 e E così tutto vacilla. Diario del 1945, traduzione di Anna Ruchat, Libri Scheiwiller, Milano 2010.

Primo Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Torino 1947.

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.

Art Spiegelman, Maus, “Raw”, New York 1980-1991; The Complete Maus, Pantheon Books, New York 1991; Maus, traduzione di Cristina Previtali, Einaudi, Torino 2010.

Charlotte Delbo, Auschwitz et aprés, titolo sotto cui sono cui sono raccolti i tre volumi Aucun de nous ne reviendra, Une connaissance inutile, Mesure de nos jours, Les Editions de Minuit, Parigi 1965, 1970, 1971; in Italia, la casa editrice bergamasca Il filo di Arianna ha cominciato la pubblicazione della trilogia sotto il titolo di Auschwitz e dopo con la pubblicazione nel 2016 del primo volume, Nessuno di noi ritornerà, per la traduzione di Elisabetta Ruffini.

Jean Hatzfeld, Une saison de machettes, Éditions du Seuil, Parigi 2003; A colpi di machete: La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda, traduzione di Paolo Dilonardo e Anna D’Elia, Bompiani, Milano 2004.

Philip Gourevitch, We Wish to Inform You That Tomorrow We Will Be Killed with Our Families: Stories From Rwanda, Farrar, Straus and Giroux, New York 1998; Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie: Storie dal Ruanda, traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, Torino 2000.

 

Fabiano Curi è editore della casa editrice brasiliana Carambaia, intervistato da Grafias nell’ambito del focus in due parti dedicato all’editoria indipendente del Brasile. L’intervista a Fabiano Curi è consultabile nell’articolo La microeditoria brasiliana nel segno di Aldo Manuzio. Mentre si può leggere la prima parte del focus al link Banca Tatuí, l’edicola virtuale degli editori indipendenti brasiliani.

 

 

Daniela Esposito

ebano_economica_feltrinelliUn reportage fondamentale per capire qualcosa in più di quel continente di cui tanto si parla senza saperne nulla, l’Africa, e dei suoi legami con l’Europa. Attraverso il resoconto di alcuni degli eventi che hanno caratterizzato la storia postcoloniale dell’Africa subsahariana, Kapuściński, con umiltà e umanità, guida il lettore in un mondo complesso, solo parzialmente conosciuto dagli osservatori esterni e quasi sempre tramite l’occhio di un’Europa (o, più in generale, di un “Occidente”) che non solo ne distorce l’immagine ma che ne ha inesorabilmente alterato le fondamenta e l’anima.

 

Ryszard Kapuściński, Heban, Czytelnik, Varsavia 1998; Ebano, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano 2000.

Daniela Esposito ha tradotto per Grafias Sulla letteratura africana, la lingua e la politica delle storie.

 

 

Giorgia Esposito

ilradicanteL’identità del soggetto non è il risultato di un’origine ma di una traiettoria: le nostre radici non sono fisse, al contrario, crescono mano a mano che avanziamo. L’individualità del soggetto è il risultato di un’installazione precaria su un suolo che riceve, dove si realizzano atti di traduzione. Siamo tutti radicanti, tutti semionauti: migranti fra i segni che traduciamo per negoziare la nostra identità, mai fissa poiché l’essere è errante.

 

Nicolas Bourriaud, Radicant. Pour une esthétique de la globalisation, Denoël, Parigi 2009; Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, traduzione di Marco Enrico Giacomelli, Postmedia Books, Milano 2014.

Giorgia Esposito ha tradotto per Grafias l’articolo Roberto Bolaño cancellato.

 

 

Innocenzo Falgarini

francofarinelli_geografiaChi, nel 2018, continua ad alzare muri, a stabilire un prima e un dopo storici e geografici, a chiudere i porti evidentemente non ha mai letto neppure un verso dell’Odissea. Se l’avesse fatto, saprebbe senz’altro che il nostro europeissimo antenato Odisseo (o Ulisse o chi per lui) è stato, più che un astuto guerriero, un pellegrino, un nomade… un migrante. Lo stesso Odisseo che, secondo il visionario Franco Farinelli, avrebbe creato la prima carta geografica, riducendo – primo fra gli uomini – “il mondo a spazio”. Come? Accecando il selvaggio Polifemo. Lo stesso Odisseo che avrebbe solcato in lungo e in largo quel grande mare, il Mediterraneo, che tanto grande poi non è: “nient’altro che una grande ingolfatura oceanica individuata da un profilo al cui interno la terraferma prevale sull’elemento liquido”. Il nomadismo (da nomos, “legge”: niente di più lecito e ordinato al mondo) è quindi nelle nostre radici, oltre ogni nostra consapevolezza. Mettere in discussione la ragione cartografica, la prevalenza della mappa sul mondo, delle nostre rappresentazioni sulla realtà materiale e concreta può aiutarci a farne memoria.

 

Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003.

Innocenzo Falgarini ha tradotto per Grafias l’articolo Come a Calcutta una società di sei persone pubblica vincitori di premi letterari di tutto il mondo.

 

 

Julia Isidori

bauman_stranierialleporteÈ un libro molto intenso che affronta il fenomeno delle ondate migratorie da un punto di vista profondo e inquadrato storicamente.

 

Zygmunt Bauman, Strangers at our door, Polity Press, Malden 2016; Stranieri alle porte, traduzione di Marco Cupellaro, Laterza, Roma 2016.

 

Julia Isidori, artista argentina, è autrice dell’immagine originale che chiude Grafias | A Reading List Against All Borders e che trovate in conclusione di questo articolo. Sempre per Grafias ha inoltre illustrato l’articolo Micronarrativa teatrale, apparso originariamente su “Revista Quimera”.

 

 

Ron Kavanaugh

notinmyneighborhood_pietilaQuesto libro non è un balsamo, scritto per curare e rimarginare, ma è necessario se vogliamo muoverci verso un mondo di pace e giustizia. La storia di Baltimora è la storia di due città – bianca e nera/ricca e povera – ed evidenzia come la legge e le regole vengano usate per segregare e per costruire un sistema in cui possa esistere legalmente una società di stampo dickensiano. Questa analisi dell’America urbana è un passo necessario per muoversi in direzione di una “più perfetta unione”. Not in My Neighborhood è un libro di riferimento nel piano di lezioni Black Lives Matter di “Mosaic Magazine”, progettato dall’educatore originario di Baltimora Eisa Nefertari Ulen.

 

Antero Pietila, Not in My Neighborhood: How Bigotry Shaped a Great American City, Ivan R. Dee, Chicago 2010.

Ron Kavanaugh è l’editore della rivista Mosaic Magazine da cui Grafias ha tradotto l’articolo Il potere della poesia: Black Poets Speak Out.

 

 

Veronica Leffe

haniel-long_cabezadevacaHaniel Long ci dona, con questo suo prezioso racconto, una delle più luminose storie di redenzione umana: quella dello sventurato Alvar Núñez Cabeza de Vaca. È la parabola di un predone spagnolo che, partito in mare alla volta del Nuovo Mondo per conquistare immaginarie ricchezze nascoste nelle foreste della Florida, alla fine del 1528 approda, con rovinoso naufragio, sul litorale del Golfo del Messico. Insieme a poche decine di sopravvissuti, Cabeza de Vaca si mette nuovamente in viaggio, affrontando difficoltà di ogni tipo: la fame, gli stenti e una natura selvaggia che, ben presto, avrà la meglio sulla maggior parte di quella umanità derelitta. Uno a uno, vede morire tutti i suoi compagni, restando, infine, alla guida di tre soli uomini. È qui che inizia per lui un altro tipo di viaggio: un viaggio che porterà l’uomo europeo a contatto con la solitudine, la sofferenza, la mancanza, l’umiliazione, la paura, ma anche con una civiltà diversa, quella degli indios del villaggio che li ha accolti, nutriti e consolati. Spogliati di ogni bene materiale e di “tutti quei pensieri che vestono l’anima di un europeo, e anzitutto dell’idea che l’uomo tragga forza da daga e pugnale”, attraverso un percorso che li vede inoltrarsi sempre più nel nuovo continente e all’interno della loro stessa anima, Cabeza de Vaca e i suoi compagni, spezzati nel corpo, esausti nello spirito, approdano a una condizione personale nuova ed estrema, una condizione che li mette a diretto contatto con l’umano e con l’altro da sé (“Fu allora, mi par di ricordare, che presi a pensare agli indios come a essere umani simili a noi”), una condizione che, infine, arriva a donargli la capacità di raggiungere il vero potere divino, quello che non ha bisogno di nessuna mediazione, di nessuna chiesa (“Essendo solo in quella natura selvaggia, nessun tessuto del corpo ostacolava il misterioso potere”). Così, quando gli Indios gli impongono di guarire i loro malati, ecco che Cabeza de Vaca e i suoi compagni compiono un inatteso miracolo, donando la vita a chi la perdeva. La storia raccontata da Haniel Long è una storia realmente accaduta. Lo scrittore americano si basa sulla relazione che Cabeza de Vaca scrisse al suo re quando, riuscito a tornare a Città del Messico dopo otto anni di peregrinazioni e guarigioni donate di villaggio in villaggio a quegli indios che ormai considerava suoi fratelli e sorelle, infine rientrò in seno alla civiltà europea. L’edizione italiana pubblicata da Adelphi si impreziosisce dell’introduzione scritta da Henry Miller, ed è con le sue parole che voglio chiudere questa mio suggerimento di lettura, perché esse sono ancora terribilmente attuali e significative, specchio del nostro momento storico. Scrive Miller: “Credo, ed è il motivo per cui non cesserò mai di parlare di questo piccolo libro, che l’esperienza di questo spagnolo solitario e derelitto nelle regioni selvagge d’America vanifichi tutto l’esperimento democratico dei tempi moderni. Credo che se egli rivivesse oggi, e vedesse i prodigi e gli orrori del nostro tempo, tornerebbe senza indugio al semplice ed efficace modo di vivere da lui scelto quattro secoli fa. Così farebbe San Francesco, e Gesù, e il Buddha, e tutti coloro che hanno visto la luce. Nemmeno per un attimo posso pensare che avrebbero qualcosa da imparare dal nostro modo di vivere”. Quello che ci dona Long con il suo racconto è un apologo folgorante e impeccabile di una delle più indissolubili tragedie dell’animo occidentale: quell’animo che purtroppo ci induce ad avere sempre “una certa riluttanza a fare del bene al prossimo” e che, però, può diventare davvero umano solo quando incontra, riconosce e cede al prossimo.

 

Haniel Long, Interlinear to Cabeza De Vaca, Writers’ Editions, Santa Fe 1936; Naufrago nel nuovo mondo, traduzione di Hélène Benazzo Boesch, Franco Maria Ricci, Parma 1973; traduzione poi confluita nell’dizione adelphiana attualmente in commercio: La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca, Adelphi, Milano 2006.

Veronica Leffe ha illustrato in esclusiva per Grafias e per la Los Angeles Review of Books l’articolo: Autofiction e diaspora asiatica: un’intervista ad Anelise Chen.

 

 

John McIntyre

steinbeck_vicolocanneryJohn Steinbeck è un autore che si legge a scuola, qui in Nord America, o almeno lo era – non posso dire con certezza quali siano i libri che si leggono oggi alle superiori. Questa è, o era, tutto sommato una bella cosa, avere Uomini e topi o Furore come pietre miliari tra le proprie letture di ragazzi. Steinbeck era uno scrittore profondamente umano, generoso e paziente. Perciò fa un certo effetto prendere in considerazione la sua visione del mondo in un momento in cui il termine “populista” ha, giustamente, assunto le dimensioni di un’offesa, visto che il suo era un immaginario populista. Ma non sono le nozioni da aula di scuola americana che mi interessano, adesso. Vicolo Cannery non è mai stato oggetto della stessa devozione dimostrata agli altri romanzi più moralisti. Non c’è da stupirsi. Il libro è incentrato su un biologo marino, un grande bevitore stupidamente generoso chiamato Doc, e su un gruppo di cinque disadattati (Mack e i ragazzi) che vivono ai margini della California del nord, a cavallo tra gli anni trenta e quaranta. Il fruttivendolo immigrato di nome Lee Chong – vi prego di perdonare gli errori di Steinbeck nel riportare la sua cultura – è centrale non solo per il benessere del gruppetto di disadattati di Steinbeck (li lascia vivere in un vecchio magazzino, da loro battezzato palazzo Flophouse), ma per tutta la comunità. Lo stesso si potrebbe dire, su basi differenti, del bordello di Dora (altrimenti noto come Dora’s Bear Flag Restaurant – “il ristorante della bandiera con l’orso”, in onore della bandiera della California). La trama, per sua natura, prima porta Mack e i ragazzi a voler architettare qualcosa di carino per Doc, e poi provoca i vari, inevitabili e involontari, passi falsi ed errori di valutazione che finiranno per intralciare il progetto. Ma è il fatto che Vicolo Cannery sia un libro sulla gioia e sulla nostalgia, sui modi duraturi e profondi in cui le nostre sorti sono collegate, che lo rende così irresistibile. È un promemoria dell’ingombrante valore dei moltissimi, piccoli e semplici modi in cui arricchiamo ognuno la vita degli altri.

 

John Steinbeck, Cannery Row, The Viking Press, New York 1945; Vicolo Cannery, traduzione di Aldo Camerino, Bompiani, Milano 1946.

John McIntyre è autore dell’articolo Preannunciare un destino avverso: cosa possono dirci i romanzi di László Krasznahorkai sulla crisi dei rifugiati? apparso originariamente su The Calvert Journal.

 

 

Zinnia Nizar

CanGraphicDesignSaveYourLifePenso che questo sia un libro che mostra come esista già un linguaggio universale tra di noi: è il linguaggio visuale. Un modo universale di comunicare, che tutti capiamo. Se esiste un linguaggio che può fare questo, perché siamo così ostinati nel distinguerci l’uno dall’altro? Sebbene questo libro non parli di discriminazioni, leggendo tra le righe ci si rende conto che, con il linguaggio visuale, siamo tutti uno.

Can Graphic Design Save Your Life, a cura di Sarah Schrauwen, Lucienne Roberts e Rebecca Wright, GraphicDesign&, Londra 2017.

 

daanimaliadei_harariQuesto libro permette di capire gli esseri umani e di non dimenticare la storia del genere umano, che è raccontata in un modo facile da capire e molto comunicativo.

Yuval Noaḥ Harari, Ha-Hisoryah shel ha-maar, Kinneret Zmora-Bitan Dvir, Tel Aviv 2011; From Animals into Gods: A Brief History of Humankind, Harvill Secke, Londra 2014 [versione inglese dell’originale edizione in ebraico curata dall’autore per il pubblico internazionale]; Sapiens: da animali a dèi, traduzione dall’inglese di Giuseppe Bernardi, Bompiani, Milano 2014.

 

Zinnia Nizar è graphic designer ed è stata presidente della sede ADGI di Giacarta, città nella quale, insieme alla sorella, Ivy Aralia Nizar, è titolare dello Ampersand Studio, uno degli più importanti studi di grafica editoriale indonesiani. The Indonesian Association of Graphic Designers: il nuovo volto della grafica editoriale indonesiana è l’intervista che Grafias ha dedicato alla graphic designer di Giacarta.

 

 

Miquel Rayó

francesburnett_giardinosegretoQuesto libro contiene una storia tenera e molto umana. Ci dice che è importante prestare attenzione ai bisogni delle persone che sono intorno a noi e ci spiega come: dando attenzione agli altri, diamo attenzione anche a noi stessi. Piccoli gesti e sacrifici portano grandi risultati nelle relazioni con gli altri. Piccoli oggetti o piccole vite, come il pettirosso, o Dickon, o le rose nel giardino, ci suggeriscono cosa ogni giorno è importante nelle nostre vite e nelle vite degli altri. Ogni cosa intorno a noi è parte di un tutto al quale dovremmo partecipare con generosità e speranza, e che dovremmo impegnarci a non trascurare.

 

Frances Hodgson Burnett, The Secret Garden, Frederick A. Stokes Company, New York 1911; Il giardino misterioso, traduzione di Maria Ettlinger Fano, Paravia, Torino 1921; oggi disponibile, fra le altre, nell’edizione feltrinelliana: Il giardino segreto, traduzione di Giancarlo Carlotti, Feltrinelli, Milano 2017; per l’edizione segnalata da Miquel Rayó: El jardí secret, traduzione di Maria Rossich, illustrazioni di Núria Giralt, Viena, Barcellona 2017.

Miquel Rayó, scrittore e educatore di Palma di Maiorca, è autore di un intervento tenuto in occasione del Festival Iberoamericano de literatura infanti y juvenil (Casa de América, Madrid, 9 ottobre 2014) apparso originalmente su Revista Babar e tradotto da Grafias con il titolo Il potere civilizzatore della lettura.

 

 

Andrea Rényi

ahalászómacskautcájaA halászó macska utcája (La via del gatto che pesca) è il più popolare titolo della scrittrice ungherese Jolán Földes (1903-1963) che con questo libro nel 1936 ha vinto il concorso internazionale All Nations Prize (il premio consisteva in 20.000 dollari di allora, una cifra esorbitante). Tradotto in 12 lingue, nel giro di un anno dalla pubblicazione il libro aveva venduto già un milione di copie. Si tratta della storia di una famiglia di proletari ungheresi emigrati a Parigi subito dopo la prima guerra mondiale: vivono nel vicolo più stretto di Parigi insieme ad altre curiose figure dell’emigrazione europea. La storia dei loro primi quindici anni a Parigi si intreccia con la storia dell’Europa tra le due guerre e racconta senza enfasi il destino dei senza patria, il processo di integrazione. Lo stile ricorda quello di Erich Maria Remarque, i contenuti sono molto originali e il libro, che è stato ripubblicato in ungherese nel 1989 e poi nel 2007, sul risvolto di copertina cita il breve commento entusiasta di Eleanor Roosevelt. In Rue du chat qui pèche, vicolo strettissimo fra la Senna e Rue de la Huchette, si trova l’albergo dove approda la famiglia dell’acconciatore di pellami Barabás. Seguiamo il loro destino, soprattutto quello dei tre figli: della sensibile Anna, dell’ironica Klára e dello studioso, diligente János. I Barabás frequentano gli altri emigrati, fra essi ci sono aristocratici russi, esuli lituani, rifugiati greci e monarchici spagnoli, una famiglia italiana antifascista, un tedesco antinazista. E in questo vicolo vive anche il grande amore di Anna, il proletario russo disamorato della rivoluzione sovietica. Barabás trova lavoro, ma il salario non è sufficiente per mantenere cinque persone e presto anche sua moglie dovrà lavorare, farà la lavandaia, per poter mantenere i figli agli studi. In questo vicolo parigino nascono amicizie, amori, legami molto forti tra diseredati che si aiutano fra loro, indipendentemente dal loro paese d’origine, dalla loro visione ideologica e dalla loro origine sociale. Un’isola di solidarietà e di affetto fra le diversità, un autentico melting pot nell’Europa appena uscita dalla tragedia di una guerra mondiale, ma che sente già nel sottofondo l’arrivare di un nuovo conflitto.

 

Jolán Földes, A halászó macska utcája, Athenaeum Kiadás, Budapest 1936; The street of the fishing cat, traduzione di Elizabeth Jacobi, Nicholson and Watson, Londra 1937; Albin Michel, 1937; La rue du chat-qui-pêche, traduzione di Denise Van Moppès, Livre de Poche, Parigi 1986.

Andrea Rényi ha tradotto e contribuito alla pubblicazione per Grafias degli articoli: “No More Class”, contro un’editoria priva di eleganza Traduzione e migrazione sono la linfa vitale della cultura.

 

 

Laura Strappa

bakhita-de-veronique-olmiBakhita è una storia straordinaria. Tratto dalle memorie della suora santificata da Giovanni Paolo II, scritte da lei con fatica e dolore, il romanzo di Dominique Olmi rielabora la storia di una bambina del sud del Sudan che viene rapita dai razziatori di schiavi, attraversa il Sahara con i negrieri, viene riscattata da un console italiano e approda in Italia, dove arriverà a scegliere di entrare nell’ordine delle canossiane. Un romanzo che racconta la schiavitù, il suo orrore e anche la possibilità del riscatto in ogni persona. Da leggere, soprattutto in questi giorni infausti.

Dominique Olmi, Bakhita, Albin Michel, Parigi 2017.

Laura Strappa ha tradotto per Grafias l’articolo Are You an Echo? La poesia ritrovata di Kaneko Misuzu.

 

 

George Szirtes

hoffman_comesidiceQuesto libro è uno dei testi più belli e più preziosi riguardo ai cambiamenti linguistici e all’importanza del linguaggio.

 

Eva Hoffman, Lost in Translation, William Heinemann, Londra 1989; Come si dice, traduzione di Maria Baiocchi, Donzelli, Roma 1996.

George Szirtes è poeta e traduttore di origini ungheresi naturalizzato inglese. All’età di otto anni ha vissuto in prima persona la condizione di rifugiano in una terra e in una lingua straniera. Il suo lavoro di traduzione si è concentrato soprattutto sull’opera di Sándor Márai e László Krasznahorkai. Grafias ha tradotto il suo intervento Traduzione e migrazione sono la linfa vitale della cultura comparso originalmente su The Guardian.

 

 

Gabriella Tonoli

shauntan_lapprodoIn un mondo di odio piatto nel quale le parole perdono il loro significato profondo, scelgo un libro che di parole non ha bisogno per trasmettere un messaggio universale. Perché la storia di ciascuno di noi è la storia di un approdo.

 

Shaun Tan, The Arrival, Arthur A. Levine Books, New York 2007; L’approdo, Tunué 2016.

Gabriella Tonoli ha tradotto per Grafias: Il declino della lingua nell’era dell’ingleseCré na Cille: rivivono in inglese le baruffe tra cadaveri di Ó CadhainLe inebrianti essenze dell’editoria indipendente.

 

 

Cecilia Arbolave e João Varella

troche_lote42L’arte di Troche non si serve delle parole, ma riesce a tramettere messaggi potenti e profondi attraverso metafore visive.

 

Troche, Dibujos Invisibles, Sudamericana, Buenos Aires 2013; Desenhos Invisíveis, Lote 42, San Paolo 2014.

Cecilia Arbolave e João Varella dirigono la casa editrice brasiliana Lote 42 a cui Grafias ha dedicato l’intervista Banca Tatuí, l’edicola virtuale degli editori indipendenti brasiliani.

 

 

Chiara Veltri

i figli della mezzanotteIl libro che mi è subito venuto in mente (su cui tanti anni fa scrissi la mia tesi di laurea) è I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, romanzo che ha segnato un punto di svolta per la narrativa post-coloniale in lingua inglese e che è pervaso da una profonda inclusività, per la sfrenata ibridazione dei generi e dei riferimenti letterari a cui attinge, per la visione della storia dell’India, della grande ferita della Partizione con il Pakistan e delle migrazioni di massa che questa ha comportato, per l’impareggiabile esuberanza linguistica. “Ma chi sono io? La mia risposta: sono la somma di tutto ciò che è accaduto prima di me, di tutto ciò che mi si è visto fare, di tutto ciò che mi è stato fatto. Sono ogni persona e ogni cosa il cui essere al mondo è stato toccato dal mio. Sono tutto quello che accade dopo che me ne sono andato e che non sarebbe accaduto se io non fossi venuto. E ciò non mi rende particolarmente eccezionale; ogni ‘io’, ognuno di noi che siamo ora più di seicento milioni, contiene una simile moltitudine. Lo ripeto per l’ultima volta: se volete capirmi, dovrete inghiottire un mondo”.

 

Salman Rushdie, Midnight’s Children, Jonathan Cape, Londra 1981; I figli della mezzanotte, traduzione di Ettore Capriolo, Garzanti, Milano 1984.

Chiara Veltri ha tradotto per Grafias l’articolo Traduzione e migrazione sono la linfa vitale della cultura.

 

 

Anita Vuco

var_edizione_originale_serbaNon ho dubbi sulla mia scelta, Var, di Saša Stojanović, pubblicato da Ensemble nel 2015. Perché è un mosaico potente, una critica dall’interno contro i pregiudizi più diversi, un monumento contro la guerra nella stessa misura in cui, oserei dire, Il cacciatore di Michael Cimino (dove la guerra non è mai inquadrata direttamente, ma resta piuttosto una cornice) è considerato uno dei massimi capolavori del cinema mondiale. Passando l’odio a setaccio, questo libro folle è duro, brutale, poetico, tutto allo stesso tempo. Non offre nessuna falsa sensazione di pacificazione con sé stessi a chi vorrebbe dare alla guerra la “colpa” di tutto, la colpa di come, in una situazione tanto estrema, le persone diventano. Le persone sono già quello che sono, bestie, tutti i giorni, nessuno escluso. Le situazioni limite permettono soltanto che ciò si riveli. Non scelgo questo libro perché è una mia traduzione, ma viceversa: è diventato una mia traduzione perché l’ho scelto.

 

Saša Stojanović, Var, Filip Visnjic, Belgrado 2008; Var, traduzione dal serbo di Anita Vuco, Ensemble, Roma 2015.

Anita Vuco ha contribuito per Grafias alla traduzione dell’articolo La rinascita della letteratura ucraina.

 

 

Monika Zaleska

dimmi_come_va_a_finire_luiselliSe vi preoccupa il trattamento che gli Stati Uniti riservano a immigrati e rifugiati, ma anche, più in generale, l’ordine mondiale, Dimmi come va a finire è una lettura obbligatoria. Valeria Luiselli descrive l’esperienza di traduttrice giudiziaria per i bambini dell’America centrale che vogliono ottenere il riconoscimento di uno status legale a New York, dopo essere scappati dalla violenza delle guerre tra gang in Honduras, El Salvador e Guatemala. L’autrice inoltre dà alla narrativa dell’“immigrazione illegale” un nuovo inquadramento come crisi di un emisfero, crisi riguardo alla quale i nostri governi dovrebbero condividere le responsabilità. Non sa dare risposte certe, ma offre una riflessione personale su una delle questioni politiche più pressanti del nostro tempo, mentre ci incoraggia a passare all’azione nelle nostre comunità.

 

Valeria Luiselli, Los niños perdidos: Un ensayo en cuarenta preguntas, Sexto Piso, Città del Messico 2016; Tell Me How It Ends: An Essay in Forty Questions, traduzione di Lizzie Davis, Coffee House Press, Minneapolis 2017; Dimmi come va a finire: Un libro in quaranta domande, traduzione di Monica Pareschi, La Nuova Frontiera, Roma 2017.

Monika Zaleska è autrice dell’articolo Adattare l’inadattabile, ovvero portare in scena il capolavoro di Bolaño 2666 apparso originariamente su Literary Hub.

 

 

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L’illustrazione originale creata per Grafias | A Reading List Against All Borders è di Julia Isidori

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