“Cultura e lavoro: quale industria culturale per l’Africa?”. Diversi operatori culturali, africani ed europei, si sono incontrati a Ségou per dibattere su questo tema durante un convegno svoltosi nell’ambito dell’XI edizione del Festival sur le Niger (4-8 febbraio 2015) nella città maliana.

di Eustache Agboton, “Bénincultures”, traduzione di Lavinia Emberti Gialloreti.

beninculture_african-literary-awards

 

 

Per tre giorni, dal 4 al 6 febbraio, alcuni esperti si sono riuniti nel centro culturale Kôrè di Ségou con l’intento di individuare percorsi e mezzi per rendere la cultura africana un settore capace di portare lavoro.

Lo scopo del dibattito è stato, secondo Mamou Daffé, direttore del Festival, “introdurre una riflessione sulla problematica delle industrie culturali nel contesto africano, ben consapevoli che le industrie culturali statunitensi o europee sono molto diverse da quelle di una piccola realtà come Ségou”.

Una volta individuato un settore che nell’ambito culturale fosse in grado di creare impiego, e dunque un’alternativa alla crescente disoccupazione in Africa, i partecipanti avevano il compito di avanzare proposte concrete per la realizzazione di un’economia della cultura. Anche se, a detta dei partecipanti al dibattito, è innegabile che la strada sia ancora lunga.

Africa: fornitore ufficiale di materie prime”.

Esaminando lo stato dell’arte della cultura africana e il suo ruolo nel panorama mondiale, William Codjo, consulente indipendente beninese per la cultura e lo sviluppo, ha concluso che finora l’Africa si è relegata nel ruolo di distributore di materie prime. Il campo culturale non è molto diverso dagli altri settori. Codjo ha spiegato:

La realtà è che siamo dei fornitori di materie prime. Le industrie si trovano altrove. Tutto torna qui sotto forma di prodotto finito, rendendoci dei semplici consumatori”.

Per illustrare le sue proposte, l’esperto in politica e affari culturali cita l’esempio del settore librario.

beninculture

Al giorno d’oggi, un editore africano che voglia produrre un libro di qualità è obbligato, per avere la possibilità di essere accettato sul mercato, a coinvolgere un altro editore europeo, una tipografia europea e un distributore. Solo il 7% del valore del libro torna allo scrittore, dunque il 93% si trova a valle della creazione. E allora dove va a collocarsi il suo valore? In Africa o in Europa?”.

Per Vincent Koala, operatore culturale burkinabé, l’Africa deve trarre profitto dalla propria cultura concentrandosi sul piano locale. Il Festival sur le Niger, ad esempio, mostra che è possibile creare, intorno a un evento o a un servizio culturale, una vera e propria industria.

“Il caso di Ségou, che accoglie questo festival, è significativo. È un’iniziativa capace di portare lavoro a parecchi abitanti del luogo; è la prova che le attività culturali e le manifestazioni ben gestite, adeguate agli obiettivi dello sviluppo locale, possono costituire un potenziale di sviluppo economico capace di generare impiego”.

Per farlo, riconosce il belga Christiaan De Beukelaer, professore incaricato in Gestione culturale all’Università Queen Margaret di Edinburgo, è fondamentale che questo settore si decida a dotarsi di dati statistici chiari, che provino ai governi la sua rilevanza nel tessuto economico. Basandosi sulle sue ricerche sul ruolo della cultura e delle industrie culturali nel progresso umano, segnatamente nel contesto del Burkina Faso e del Ghana, il conferenziere ha assicurato che un sistema di industrie culturali in Africa è possibile se si accetta il compito scientifico di registrarne tutte le caratteristiche.

È un’idea che è stata approvata anche dal professore universitario senegalese Ibrahima Wane, contrario alla mancanza di dati quantificabili nel settore culturale (tanto più che ormai nessuno nega la loro utilità). Una situazione che, nel continente, fa un grande torto all’artigianato, afferma Nadia Nkwaya, responsabile della ricerca nell’ambito della rete Arterial Network. Questo perché, ha spiegato, “è uno dei pochi settori le cui ripercussioni sono tangibili e che tocca direttamente le popolazioni”.

Africa ispiratrice del mondo.

È innegabile, dunque, nonché ampiamente riconosciuto, che l’Africa alimenti le industrie culturali fuori dal continente. Questo perché, al di là delle “materie prime culturali”, Vincent Koala sostiene che alcune pratiche, oggi essenziali per la vitalità delle industrie culturali europee, siano nate in Africa. Un esempio, il crowdfunding o finanziamento partecipativo. Si tratta di una tecnica di finanziamento dei progetti dal basso, che ha raggiunto una diffusione globale con l’avvento delle tecnologie dell’informazione. Per il burkinabé, questa tecnica si ispirerebbe all’abitudine degli africani di saltare sul palco durante gli spettacoli, ad esempio musicali, per omaggiare l’artista con delle banconote.

L’espressione di un’adesione massiccia alle prestazioni degli artisti in Africa ha forse spinto gli europei a sviluppare il crowfunding”, ha ipotizzato Vincent Koala.

Nell’ambito dell’artigianato, ha spiegato Nadia Nkwaya, esiste uno stuolo di esempi dell’apporto africano. Uno tra questi è il prestigioso marchio Louis Vuitton, che ha fatto uso del tessuto tradizionale masai, la shuka, per ideare una delle sue ultra-apprezzate collezioni di sciarpe. È, quello di Vuitton, un esempio capace di mostrare l’ampiezza delle incursioni delle competenze africane nell’artigianato mondiale. Nadia ha insistito quindi sulla necessità di ripensare il settore culturale e artigianale africano per far sì che gli africani stessi ne possano usufruire a pieno.

Che tipo di industria per la cultura africana?

Allo stesso tempo, Nadia Nkwaya rifiuta l’idea che all’Africa venga imposto un modello esterno di industria culturale, ed è forse per questo motivo che, durante la sua presentazione sul tema “Artigianato e creazione di posti di lavoro”, ha sottolineato l’esistenza di diversi modelli industriali. Nadia ha spiegato:

Ogni paese ha il suo modello, secondo i suoi bisogni e l’ampiezza del suo settore artigianale. Che si parli di Africa del Sud o di Thailandia, due paesi che ho portato a esempio, credo che sia necessaria una coordinazione tra governo, settore privato e artigiani”.

Una coordinazione che permetterebbe allo stato di farsi garante del marchio paese, fortificando il settore privato. Il settore privato a sua volta, grazie alla propria conoscenza del mercato, sarebbe in grado di trasformare e rendere competitivo l’artigianato. A quel punto, si potrebbero formare gli artigiani a un nuovo modo industriale di lavorare, per poter soddisfare le aspettative dei consumatori.

In ogni caso, per Espera Donouvossi, capo progetto a Mokolo, la cosa più urgente è che la cultura venga considerata un’attività economica vera e propria, soggetta alle stesse regole degli altri settori.

È inconcepibile che, proprio mentre si parla sempre di più di un’economia della cultura, i sostenitori dei progetti culturali non siano trattati come tutti gli altri e continuino a beneficiare di sovvenzioni a fondo perduto, senza dover subire un controllo dei risultati ottenuti”.

È stato il professor Mahamadé Savadogo, dell’Università di Ouagadougou (Burkina Faso), a concludere che l’Africa non deve, in ogni caso, reinventare la ruota [l’espressione francese “réinventer la roue” ha lo stesso significato del nostro “scoprire l’acqua calda”, ndr]:

“In Africa esistono già delle esperienze in tal senso. Ci sono dei festival che esistono da tempo e che vengono organizzati senza problemi. A parte il Festival sur le Niger in cui ci troviamo ora, penso al Fespaco (Festival panafricano di cinema e televisione di Ouagadougou), o ancora a Récréâtrales, sempre a Ouagadougou. Nell’ambito delle arti plastiche, il Benin è ricco di artisti rispettati nel mondo che vivono della loro arte e che hanno messo in piedi una vera e propria industria”.

Si tratta di esempi numerosi, che tuttavia tardano a fare scuola. Le riflessioni condotte nel corso di questo convegno, e il documento che ne deriverà, permetteranno di invertire la tendenza e di offrire più possibilità d’impiego nel settore culturale? In altre parole, la cultura africana è davvero pronta a industrializzarsi? I partecipanti al convegno di Ségou rispondono in modo affermativo. Spazio dunque alle azioni concrete.

leggi offline «Industrie culturali in Africa: prospettive e miraggi»