di Yosa Vidal, “Revista Intemperie”, traduzione di Cecilia Raneri.

Yosa Vidal ci offre un’anteprima del suo nuovo libro, Los multipatópodos, accompagnata da una catalogazione delle nuove specie che compariranno a seguito delle mutazioni genetiche (a dispetto di ogni previsione apocalittica).

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Perro Apaec[1] (genus museum)         

Fin dai suoi inizi nel XVI secolo, la storia dei musei è stata monotona e regolare, con buona pace degli storici moderni ai quali piace tanto scovare flessioni e battute d’arresto nel corso delle cose e mettersi a questionare su ogni parola: loro malgrado, i musei sono nati e si sono moltiplicati esponenzialmente e, salvo l’eventualità di qualche piccolo bombardamento, la loro vita è stata pacifica e il loro obiettivo quello di conservare opere ritenute artistiche, in forme diverse, per un pubblico volontariamente interessato ad accedervi.

A questo si aggiunge che sempre, senza nessuna eccezione, tutti i musei sono incredibilmente freddi e restano chiusi, immancabilmente, il lunedì.

Ed è proprio grazie a queste ultime caratteristiche che il Perro Apaec è oggi una specie in salute, che può contare su un numero crescente di esemplari.

Il Perro Apaec (genus museum) fu osservato per la prima volta dallo scienziato Archibald Bloom, un giovane viaggiatore d’altri tempi che si dedicò allo studio della natura a cominciare proprio dall’avvistamento di nuove specie. Bloom stava gironzolando nel museo Larco, a Lima, stregato dalla meravigliosa collezione d’arte precolombiana lì conservata.

“Lo ricordo come se fosse ieri: tra un mortaio di Pacopampa e un’anfora per le libagioni, una bestiola passeggiava leccando con la lingua sottile i piccoli residui di polvere posati su quelle antichissime sculture, fino a quando non si accorse della mia presenza e fuggì a nascondersi sotto un’enorme effige del dio Ai Apaec”, scrive nel suo Long Place Animalia (p. 47).

Lo scienziato rimase folgorato dalla singolarità di quell’essere e all’inizio pensò persino che potesse trattarsi dell’apparizione dello stesso dio precolombiano posto a protezione delle vestigia della sua antica cultura.

Ma lunghe ricerche e anni di osservazione dimostrarono che la sua prima ipotesi era tanto sbagliata quanto le sue vecchie superstizioni; il Perro Apaec – così denominato per via delle circostanze della sua scoperta – è una specie nella quale ci si può imbattere nella maggior parte dei musei d’America, inclusi la Pinacoteca di San Paolo, il Museo delle belle arti di Santiago del Cile, il Museo napoleonico dell’Avana e molti altri ancora.

Avverso al calore e all’umidità, raffinato estimatore di minutaglie di rifiuti, non avrebbe potuto trovare rifugio migliore dei templi dell’arte. È stato ipotizzato che la sua diffusione sia da attribuirsi ai continui viaggi compiuti tra un museo e l’altro, nelle casse per il trasporto delle opere d’arte delle mostre itineranti (l’esemplare più grande rinvenuto finora non supera i 17 cm di lunghezza dal becco alla coda), comodamente adagiato tra palline di polistirolo, carta sminuzzata e segatura.

Il Perro Apaec non rappresenta un’eccezione bensì una regola; ha contribuito a far sì che la storia dei musei rimanesse monotona e costante,  mantenendo norme inviolabili come la temperatura e gli orari di apertura.

Se desiderate fare la sua conoscenza potete irrompere in un qualsiasi museo un lunedì dopo pranzo: è il momento in cui gli addetti alle pulizie si concedono una lunga siesta mentre l’animale finisce di leccare tutti i pelucchi e la polvere rimasti sui bordi delle cornici.

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Esperanio[2] (sperantis animo)

L’Esperanio genera, ed è egli stesso, l’attesa, l’estasi plastica, producendo in chi lo guarda una straordinaria esaltazione: è il paradigma del mutamento, che vive in esso e da esso è determinato.

È dotato di una struttura ossea ben definita, la sua testa e le sue estremità sono rimaste immutate nel corso dei secoli: ma ciò che non riposa mai è la sua pelle, e questo costante movimento di superficie conduce l’Esperanio e chi lo osserva all’inazione.

Dà l’impressione di starsene in posa: mentre prende il sole su una roccia, in riva a un fiume, aggrappato allo scolo di una fogna, mantiene lo sguardo fisso per ore e ore e il lento ritmo della respirazione si accompagna a piccole esplosioni e implosioni visibili sulla sua pelle, vortici che si allargano e si restringono, le sue squame cambiano colore e si trasformano di volta in volta in dita, zone porose, tessuto umido e rugoso, poi morbido e asciutto, luminoso, opaco, e così via finché non ritorna alla quiete.

Questo accade perché il derma è organizzato per zone meristematiche o raggruppamenti cellulari che vivono in un permanente stato embrionale, vale a dire in attesa di decidere quale tipo di tessuto andranno a formare.

Il significato di questo difetto resta incomprensibile: questa fugace compiutezza che diviene d’un tratto incompiutezza; sfuggono le ragioni per le quali una determinata zona decida di diventare, da un momento all’altro, tessuto renale, occhi, lingua, appendice o qualunque altro organo o tessuto, e il momento in cui tale decisione e il cambiamento si verificheranno per tornare poi a essere meristema.

Per l’Esperanio, chi lo contempla non esiste, sembrerebbe non nutrire nessun timore dell’altro, non avvertire altra presenza se non la propria, e quindi impassibile lascia che si susseguano il tintinnio delle tazze da tè, il profumo dei pasticcini e del pane appena sfornato, lo sferruzzare dei ferri da maglia o il silenzio ovattato di quando le zie preferiscono spegnere per un momento il televisore per poterlo osservare.

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Juya

La Juya (dall’aymara[3]tenero”), è un animale famoso per la sua docilità, vive sparpagliato tra i porti della costa dell’Oceano Pacifico, del Golfo del Messico e del Mar dei Caraibi.

Con abitudini da animale domestico ma dotata di spirito libero, è solita accompagnare i pescatori che adotta come padroni e aspettarli sulla riva, lo sguardo perso nell’orizzonte per ore, finché non ritornano sani e salvi con le loro barche.

Sempre disposta a un gesto benevolo, compassionevole, persino verso specie di altri ordini e regni, è stato ipotizzato che sia filogeneticamente imparentata con il cane, per via di alcune caratteristiche strutturali, ma principalmente per la sua fedeltà e per la naturale propensione al gioco e all’essere affettuosa.

Sono famose le immagini del “Transnational Geographic” che la ritraggono mentre aiuta un’otaria sopraffatta da altri leoni marini, mentre salva alcuni gabbiani rimasti imprigionati in reti e fili da pesca, oppure mentre dà un colpo sul dorso di un pellicano che sta per strozzarsi, mentre adotta cuccioli di altre specie o protegge una cagnetta in calore.

Anche se la Juya abbaia, non lo fa nelle ore in cui la maggior parte delle altre specie dorme, è carnivora di nascita ma erbivora per convinzione e sotterra i suoi escrementi ogni volta che le è possibile.

Biologi e antropologi si sono chiesti quali siano le cause di un comportamento ritenuto, da coloro i quali si dimostrano abbastanza benevoli nei confronti della nostra specie, “quasi umano”, e sono arrivati alla sorprendente conclusione che la Juya è un animale abitudinario.

La propensione alla bontà non è frutto di un’eredità genetica, ma viene trasmessa di generazione in generazione, sin dalla nascita, attraverso la ripetizione di rituali edificanti che le inculcano l’impossibilità di non insegnare a sua volta tali buone abitudini ai propri cuccioli (naturali o adottivi che siano).

La regola ha poi la sua conferma in un’eccezione.

A Tumaco, nel dipartimento di Nariño, in Colombia, venne individuato un esemplare di Juya talmente deviato da essere in grado di compiere una vera e propria forma di diserzione, ovvero di tradire e disattendere i propri obblighi di fedeltà.

Ebbene, questa Juya si avvicinava ai vagabondi ubriachi, tendeva loro la zampa per aiutarli a sollevarsi e poi, una volta conquistata la loro fiducia, si approfittava della loro debolezza, rubava loro il liquore e andava a scolarselo da sola, lontano, senza condividerlo con nessuno.

La notizia si diffuse tra la popolazione, la quale, naturalmente dedita ai bagordi, si sentì minacciata e contattò, per mezzo delle autorità, i biologi e gli antropologi prima menzionati.

La conclusione arrivò fulminea: la Juya deviata era stata allontanata dai suoi genitori in tenera età e non aveva “appreso” le loro usanze.

I fratelli dell’esemplare, in compenso, ritrovati ad alcuni villaggi di distanza, erano così lontani dal vizio da rasentare addirittura l’idiozia.

Anche la seconda conclusione cui giunsero gli esperti risultò scontata: solo un’abitudine in realtà appare innata nella Juya, l’attitudine a imparare.

Con una cerimonia semplice e graziosa, la Juya deviata fu restituita alla sua famiglia, per la felicità degli abitanti di Tumaco. Così, dopo aver condotto una vita indifferente, frivola e individualista, si unì al branco e poté agire, dopo ripetute correzioni, in modo encomiabile e prodigo nei confronti dei suoi simili, ovvero tutti quanti.

Illustrazioni di Luis Vidal.

 

 

[1]    Letteralmente suonerebbe “Il cane del dio Ai Apaec”.

[2]    Il nome fa riferimento al termine spagnolo “espera”, che significa “attesa”.

[3]    La lingua aymara appartiene alla famiglia delle lingue aru ed è parlata in Bolivia, Cile e Perù. È lingua ufficiale in Perù e Bolivia.

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