di Jonathan Gibbs, “Gorse”, n. 7, Literature is the question minus the answer, traduzione di Valentina Muccichini

 

Uno degli aspetti più sorprendenti del saggio di Ben Lerner, Odiare la poesia[1], pubblicato nel Regno Unito da Fitzcarraldo, è l’uso delle note a margine. Nei larghi margini esterni del libro sono state stampate, solitamente una per pagina, delle brevi frasi in corsivo:

 

Neanche a me
Preghiera incessante
Fioriscono le difese
Cosa devo cantare?
Perdita dell’armoniosa bellezza

 

per citare i primi cinque esempi. Sono belle da vedere, e a mano a mano che ci si immerge nel libro si immagina che il loro significato, o il loro scopo, diverrà più evidente.

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Gorse No. 7 | ‘Literature is the question minus the answer’

 

L’altro aspetto che mi ha colpito durante la lettura è stata l’analogia tra questo espediente e quello utilizzato da Maggie Nelson in Gli argonauti[2], che per puro caso ho letto di recente per la prima volta. Qui, tuttavia, i margini larghi vengono utilizzati per l’attribuzione delle citazioni: un’aggiunta più informale al blocco del testo, seppur poco comune in termini di posizionamento. Si tratta in ogni caso di un’interessante alternativa al tradizionale stile accademico.

Nelson indica esclusivamente il nome dello scrittore – e in un carattere così piccolo da non interrompere affatto la lettura. Soltanto il nome: nessun titolo di libri o saggi, nessun anno, nessun editore – niente di questo, neanche alla fine del libro: nessuna appendice, nessuna bibliografia. (Di fatto, non viene specificato se si tratta di un riferimento a un’opera pubblicata. Per quanto ne sappiamo, potrebbe anche essere una chiacchierata tra amici).

Si tratta di un elegante compromesso rispetto all’approccio estremo adottato da David Shields nel suo libro-manifesto Fame di realtà[3], nel quale l’autore presenta una serie di citazioni e materiali originali senza alcuna distinzione alla lettura, ma con dei riferimenti agli autori e ai titoli citati all’interno di un’appendice, che il lettore viene invitato a strappare e gettare via. Anche se dubito che qualcuno lo abbia fatto.

La decisione di Nelson appare perfettamente calzante. Una citazione in corsivo all’interno del testo e un nome inserito lateralmente suggeriscono che si tratta delle parole di qualcun altro. Se se ne vuole sapere di più, basta cercare su Google. Una nota a piè di pagina completa di riferimenti renderebbe il libro fin troppo formale e sostenuto, mentre sono proprio la leggerezza e la chiarezza con cui Nelson affronta questioni spinose quali genere, maternità, omosessualità e transessualità a rendere il libro il sorprendente successo che è stato. D’altro canto, rimandare ogni volta il lettore alla fine del libro – un altro approccio più “rilassato” ai riferimenti – potrebbe dare l’impressione di voler sminuire quegli scrittori e quei pensatori che si intrecciano nella sua argomentazione, o sui quali l’argomentazione stessa si fonda.

Questo è l’approccio adottato da Geoff Dyer nei suoi romanzi: includere “citazioni prive di attribuzione” alla fine di Amore a Venezia, morte a Varanasi[4] e “citazioni da Fiesta. Il sole sorgerà ancora di Ernest Hemingway” in Paris trance[5].

Ignora del tutto la questione in Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz[6], il suo libro sul jazz, specificando in un commento sulle fonti che “le citazioni più famose dei musicisti stessi si trovano in qualsiasi libro sul jazz”. In fin dei conti si tratta di una questione di etichetta. I libri di Dyer parlano di cultura, il libro di Nelson parla di sentimenti.9780224030960-uk

Ragionare sull’uso dei margini nella letteratura contemporanea ha fatto sì che iniziassi a cercare tra i libri che avevo in casa. (Il numero di libri sparsi sulla scrivania è segno di una giornata buona per chi si occupa di scrittura critica, mentre il numero di schede aperte nel browser è segno di una giornata buona per chi si occupa di scrittura creativa).

Un ottimo cattivo esempio da contrapporre a Nelson è Il libro degli esseri a malapena immaginabili[7] di Caspar Henderson, al quale nel 2012 Granta Books ha donato uno stile finto antico in piena regola, con dei margini larghi su cui sono riportate le note in rosso, e con i termini a cui queste si riferiscono nel corpo del testo a loro volta contrassegnati in rosso. In questo caso si tratta tuttavia di note discorsive, che forniscono informazioni accessorie, o di citazioni secondarie (solitamente piuttosto recherché – un po’ come l’intero libro a mio avviso). Talvolta arrivano fino a metà pagina, anche se quanto più sono lunghe, tanto più risultano difficili da leggere e integrare.

Il problema è che la nota scorre parallelamente al corpo principale del testo. Mentre si legge la nota, il corpo del testo resta nella visione periferica, un po’ come il traffico nella corsia accanto alla nostra in autostrada quando ci si rende conto con disappunto, appena si riprende a scorrere e la strada si divide per uno svincolo, che è proprio quella nella quale avremmo dovuto trovarci.

Le note a margine di Henderson, in altri termini, dovrebbero essere note a piè di pagina. Se si divaga, si deve rimandare il lettore in fondo alla pagina, interrompendo opportunamente la sua attenzione – come accade ad esempio, in modo piuttosto brillante, nel saggio di David Foster Wallace “Federer come esperienza religiosa”[8]: un esempio da manuale in termini di utilizzo delle note a piè di pagina per definire il ritmo di lettura e costruire il sottotesto. Sebbene il tema principale del saggio di Wallace sia la grazia sovrumana dimostrata sul campo da Roger Federer, il tema secondario, la sua ombra retorica, è la fin troppo umana fragilità e debolezza fisica di tutti gli altri, simboleggiata da William Caines, il bambino di sette anni con il cancro al fegato che lancia la monetina prima della finale di Wimbledon (Federer contro Nadal) oggetto del racconto di Wallace. Wallace scrive (nel corpo del testo):

 

Sembra quasi che, finito il rituale, si chiarisca il vero motivo della presenza del bambino. Un bambino con il cancro che lancia la moneta in questa finale da sogno comunica una sensazione importante, che disturba e non disturba allo stesso tempo. La sensazione, e il relativo significato, sa di cosa-sulla-punta-della-lingua che continua a sfuggire almeno per i primi due set.

 

In realtà, Wallace ha già introdotto la sua tematica secondaria, vale a dire la sua e la nostra mortalità, nella primissima nota a piè di pagina, contrapponendola all’apparente immortalità delle prestazioni di Federer. La nota a piè di pagina inizia così: “Sono tante le cose brutte nell’avere un corpo”.

Successivamente, il saggio si concentra sulla partita in sé, sui perché e sui percome della straordinaria abilità di Federer, sulla matematica e sulla storia che ne costituiscono il contesto. E continua sullo stesso tono fino all’ultima riga – fatta eccezione per la lunga nota a piè di pagina inserita a circa una pagina dalla fine.

Questa, la nota diciassette, inizia andando dritta al punto, con una discussione dettagliata sul terzo set della finale, ma poi, dopo un lungo paragrafo, cambia tono:

 

A proposito, è più o meno a questo punto, o nel game successivo, seguendo la partita, che tre diverse cose di tipo interiore emergono tutte assieme e si confondono. Una è la sensazione del profondo privilegio personale di essere vivo e di assistere a tutto questo; l’altra è il pensiero che anche William Caines dev’essere qui tra il pubblico dello Stadio Centrale a seguire la partita, magari con la mamma. La terza cosa è l’improvviso ricordo della serietà con cui il conducente delle navette riservate alla stampa aveva garantito questa precisa esperienza. Perché è davvero un’esperienza. È difficile descriverla – sembra un pensiero che è anche una sensazione. Non vorrei esagerare, o spacciarla per una giusta contropartita; sarebbe assurdo. Ma la verità è che qualunque divinità, entità, energia o fluttuazione genetica casuale produca i bambini malati produce anche Roger Federer, basta guardarlo laggiù. Guardate.

 

E poi si torna nuovamente al tema principale, e ci si trova con due soli paragrafi prima di arrivare alla fine del saggio, ma è quel passaggio straordinario nella nota a piè di pagina a renderlo colorito, e a introdurre il secondo termine del sillogismo – ed è fondamentale che le parti vengano tenute separate, perché la conclusione non detta è quasi certamente blasfema: è plausibile, secondo l’argomentazione che Wallace propone nel suo saggio, che William Caines, guardando Federer giocare, si riconcili – brevemente – con la sua fin troppo reale mortalità. Si tratta di certo di un capolavoro in termini di uso delle note a piè di pagina, sì, ma allo stesso tempo Wallace conserva sempre il pieno controllo sul ritmo della nostra lettura.

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Anche Dyer ha utilizzato in modo creativo le note a piè di pagina in Zona[9], la sua monografia su Stalker, il film di Tarkovsky. In questo libro lascia spazio a lunghe note discorsive, il cui carattere ha le stesse dimensioni del corpo del testo, alcune delle quali occupano più pagine, così che talvolta ci si dimentica se ciò che si sta leggendo è la narrazione principale o quella secondaria. La nota a piè di pagina viene promossa a un pari livello.zona_books

Forse il problema del libro di Henderson consiste nel fatto che, poiché l’opera in sé rappresenta un esercizio borgesiano in termini di accumulazione delle informazioni, attinenti o meno, l’utilizzo di questo sistema antiquato e desueto costituisce una distrazione. Se ci si mette nei panni degli enciclopedisti, è necessario farlo con serietà, come ha fatto, ad esempio, Alasdair Gray nel suo sorprendente The Book of Prefaces[10], nel quale utilizza i margini per delle note di colore rosso che forniscono un solido contesto storico rispetto alle prefazioni citate. Il parallelismo è appropriato, la correlazione tra i testi è solida.

Un altro buon esempio di note a margine di colore rosso che ho rinvenuto sui miei scaffali è stato il numero 31 di “McSweeney’s”, dal titolo Vikings, Monks, Philosophers, Whores: Old Forms, Unearthed[11], curato da Darren French e Graham Weatherly. Questo volume di grande formato dalla copertina rigida riprende una serie di forme letterarie dimenticate o trascurate, come ad esempio il dialogo socratico, la saga nordica e il biji cinese (una sorta di successione di lunghi appunti intrecciati a parti narrative). I curatori descrivono ogni forma prima di dare spazio ad alcuni scrittori contemporanei, tra cui Joy Williams, David Thomson e Douglas Coupland. Coupland ha ovviamente fatto ampio uso dei margini nel suo romanzo d’esordio del 1991, Generazione X: storie per una cultura accelerata[12], riempiendoli di definizioni in pillole (McJob, trasloco preventivo, paralisi delle opzioni ecc.), slogan alla Barbara Kruger e vignette singole.

Sebbene French e Weatherly aggiungano solo alcune note secondarie o esplicative rispetto ai testi stessi,mcsweeneys forniscono al contempo citazioni di esempi canonici della forma in questione, spiegando cosa fa lo scrittore in un momento specifico. Ad esempio, l’arguto dialogo socratico di Thomson, con Susan Sontag nel ruolo principale e Charlie Chaplin, Ernest Hemingway, Franz Kafka e Virginia Woolf che si uniscono a lei per discutere sulla questione del miglior film di tutti i tempi, è accompagnato da brevi estratti da Menone, Simposio, Protagora ecc. In altri termini, si tratta di postille appropriate – scritte da una mano diversa rispetto al pezzo in sé, che aiutano il lettore nella comprensione di ciò che ha davanti. Inoltre, in quanto esempi – in quanto modelli della forma – corrono in realtà in parallelo rispetto al testo principale. Si trovano lì, in senso stretto, a beneficio della forma; il loro contenuto non muta il senso, e pertanto leggerle con il testo principale nella visione periferica non deconcentra come accade con Il libro degli esseri a malapena immaginabili.

Sono stato a lungo affascinato dalle possibilità offerte dalla presenza di narrazioni parallele sulla pagina.

Non mi riferisco semplicemente all’uso delle note a piè di pagina come narrazione secondaria: che è una soluzione abbastanza comune; intendo l’uso di una seconda o terza colonna, un vero e proprio flusso di testo.

Questo è stato fatto sul piano filosofico (utilizzando il termine in senso ampio) da Jacques Derrida in Glas[13] e in Timpano[14], così come da J.M. Coetzee nel 2007 nel romanzo Diario di un anno difficile[15], sebbene Coetzee divida la pagina in orizzontale. Qui, in ogni capitolo viene presentato un saggio (presumibilmente di un intellettuale sudafricano), che inizia nella parte superiore della pagina e, in fondo, voci di diario dello stesso uomo che parla del suo rapporto con Anya, una vicina che ha assunto come dattilografa – e, successivamente, altre voci di diario scritte da Anya stessa.

Analogamente, Gabriel Josipovici presenta due narrazioni, divise in orizzontale, nel suo racconto del 1972 “Mobius the Stripper”[16], mentre in The Faraway Nearby[17] di Rebecca Solnit troviamo un saggio in miniatura che scorre lungo una striscia simile al nastro di una telescrivente posizionata in fondo alla pagina, che segue sottotraccia tutto il libro. Detto questo, è difficile immaginare che qualcuno lo legga, un pezzo dopo l’altro, mano a mano che va avanti nel libro. La mente umana non funziona così.

Si tratta principalmente di una questione di attenzione, di come si accolgono diverse narrazioni – o svariati aspetti di un’unica narrazione – nella propria mente nello stesso momento. È compito di ogni scrittore di prosa e di poesia capire quale sia il modo migliore di farlo, ripetendo e modellando tematiche, leitmotiv e personaggi all’interno di un testo lineare. Ma lo scrittore del testo lineare è in grado di farlo perché sa in che ordine il lettore leggerà le parole. Dividendo lo spazio di narrazione si perde quel controllo.

Ciò su cui ho ragionato, tuttavia, è il problema di come integrare l’uso dei social media nella narrativa inMobius_the_stripper prosa. E come tutti coloro che hanno a disposizione una connessione a Internet sanno bene, il problema dei social media consiste a tutti gli effetti in un problema di attenzione. Se qualcuno in un racconto o in un romanzo legge un’email, lo si può inserire nella narrazione, come si farebbe con una lettera – ma che si fa se qualcuno riceve un sms, legge un tweet o un post su Snapchat o Facebook? Probabilmente si tratta di qualcosa che farebbe contemporaneamente a qualcos’altro: parlare, camminare, guardare la televisione. Tutto questo si palesa nella nostra coscienza con la caducità delle bolle di sapone, e viene letto e rimosso – o si elimina da solo – con pochissimo sforzo.

Immaginiamo una coppia che in un racconto o in un romanzo sta conducendo stancamente una discussione di poco conto. Nel frattempo potrebbero benissimo essere entrambi sui loro telefoni. Ma inserire quegli altri messaggi in una descrizione in prosa – insieme al dialogo – apparirebbe fin troppo eccessivo, troppo inopportuno.

Dovrebbe esserci un modo per mostrare le numerose attività che svolgiamo ogni giorno nelle due dimensioni della pagina; qualcosa che rispecchi la facilità con cui passiamo da un’applicazione all’altra, e dalle nostre vite virtuali a quelle reali. Anzi, facciamo anche fatica a passare da una all’altra: coesistiamo in entrambe, se vogliamo ribaltare il senso del termine “coesistere”. Come facciamo a mostrarlo sulla pagina? Be’, sfruttando i margini. I margini sono lì per essere usati come subconscio della narrazione, in quanto la nostra vita digitale funge da substrato alla nostra esistenza nel mondo reale.

Il che mi riporta, in modo indiretto, a Ben Lerner. Chiaramente le sue note a margine non sono dei riferimenti. Il più delle volte, anche se non sempre, vengono estratte dal paragrafo a cui sono associate – una sorta di slogan, talvolta serio (uno è in greco), talvolta kitsch.

 

Una casa più bella
Via Negativa
Abbiamo fatto saltare in aria l’America
Quello è il mio nome, non romperlo

 

Talvolta non fanno affatto riferimento a una parte specifica del testo, sebbene il riferimento sia di solito ragionevolmente facile da seguire: Scritto sull’acqua a fianco di un confronto tra la poesia di Keats (“che molti considerano quanto di più vicino sia mai stato prodotto, in lingua inglese, a un’espressione realizzata della musica planetaria della poesia”) e “The Tay Bridge Disaster” di William McGonagall – che, grazie alle sue esemplari scarse doti, ha ironicamente quasi raggiunto la fama di Keats.

Vi sono due aspetti rilevanti di tali note a margine: anzitutto, ovviamente, la scelta delle parole, e in secondo luogo, aspetto più interessante, il relativo posizionamento rispetto al paragrafo: talvolta la nota è collocata prima del testo a cui fa riferimento, talvolta dopo. In altre parole, talvolta si tratta di una premonizione, o di un avvertimento, e talvolta di un’eco.

Sebbene i paragrafi non siano eccessivamente lunghi, i margini larghi e i caratteri grandi fanno sì che molti paragrafi occupino più di una pagina, e quindi talvolta le note non si trovino sulla stessa pagina del testo a cui fanno riferimento. Inoltre, sebbene la maggior parte dei paragrafi presenti un’unica nota a margine/estratto, alcuni ne sono sprovvisti mentre altri ne presentano più di una. Il rapporto è incerto.

Potrebbe quindi trattarsi di una sorta di titoli, come i sottotitoli della carta stampata (in particolare dei tabloid), o di qualcosa di simile ai concisi ed eroicomici riassunti dei capitoli che si trovano in libri come Tre uomini in barca[18] di Jerome K. Jerome – “Tre invalidi – Sofferenze di Giorgio e Harris – Una vittima di centosette fatali malattie” ecc. Sono quindi da intendersi come aiuti alla lettura, il genere di cose che io scarabocchio in cima alle pagine dei libri che sto leggendo per contrassegnare un pezzo specifico che voglio ritrovare? (Solitamente mi limito a copiare una frase dal testo).

In un libro così breve, con dei caratteri così grandi, sarebbe piuttosto facile cercare delle parole in posizioni specifiche del testo, perlopiù nomi propri. Ecco come funziona la memoria del lettore. E se le note a margine erano concepite come titoletti di riferimento, la loro relativa variabilità e il posizionamento non coerente le rende tanto un intralcio quanto un aiuto. Guardando le poche note citate sopra, mentre sto rivedendo questo saggio, non so affatto a quali sezioni o idee facciano riferimento. In qualità di aide-mémoire, “promemoria”, sono sinceramente inutili.

No, il loro ruolo nel libro deve essere intimamente e immediatamente collegato alla loro lettura. Non si tratta di titoli, di interventi autoriali, ma di emanazioni; si trovano di lato, estranee, facoltative: in fin dei conti sono sussurrate, come se si collocassero sotto il respiro del testo. Il loro ruolo è poetico. Danno una spinta alla lettura, anche se per come la vedo io questa spinta varia a seconda del rapporto della nota con il testo a cui fa riferimento: talvolta precede, talvolta segue. Talvolta si tratta di insinuare nella mente del lettore un pezzo latente o un atomo del significato che la narrazione giustificherà e spiegherà solo più avanti. Talvolta si tratta di estrapolare e richiamare un momento di significato precedentemente letto e assimilato.

Mentre leggevo il libro ho percepito qualcosa di simile a fili o linee che si estendevano dalle note a margine fino alle relative ancore testuali, e li ho immaginati spostare l’attenzione del lettore in avanti lungo la pagina – più la linea si estende, maggiore è la forza di questa oscillazione. Ho cercato di capire da dove derivi questa immagine, e credo che arrivi dai videogiochi, dove un personaggio lancia una corda per aggrapparsi a un edificio, per poi utilizzarla per oscillare o per arrampicarsi, una versione tecnologica delle liane usate da Tarzan per spostarsi nella giungla. Mi vengono in mente anche i balli di gruppo in un cèilidh o in una quadriglia, dove i ballerini disposti su due linee si superano gli uni con gli altri, aggrappandosi alle rispettive braccia prendendo così una sorta di slancio. Ovviamente, in entrambi i casi, l’idea dello slancio infinito in assenza di attrito è un’illusione: le liane di Tarzan, che partono da una posizione statica, appese in verticale, semplicemente non lo porterebbero molto lontano; e i ballerini del cèilidh vanno più veloci e poi rallentano ma ben presto crollano su una sedia, con le guance arrossate e il fiato corto.

Eppure nei libri funziona. L’occhio non fa altro che scivolare, senza sosta, instancabile, lungo la pagina. Le note a margine ci catturano, per un istante, ci trattengono, per poi lasciarci proseguire oltre. Sono come gli spettatori di una maratona che se ne stanno lì con in mano per noi i loro bicchieri d’acqua, il cui tifo ci precede e ci segue, ci traina da davanti e ci spinge da dietro.

 

 

[1] Ben Lerner, The Hatred of Poetry, Fitzcarraldo, Londra 2016; Odiare la poesia, traduzione di Martina Testa, Sellerio, Palermo 2017.

[2] Maggie Nelson, The Argonauts, Graywolf Press, Minneapolis 2015; Gli argonauti, traduzione di Francesca Crescentini, Il Saggiatore, Milano 2016.

[3] David Shields, Reality Hunger: A Manifesto, Knopf, New York 2010; Fame di realtà, traduzione di Marco Rossari, Fazi, Roma 2014.

[4] Geoff Dyer, Jeff in Venice, Death in Varanasi, Canongate, Edimburgo 2009; Amore a Venezia, morte a Varanasi, traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, Torino 2009.

[5] Geoff Dyer, Paris Trance, Abacus, Londra 1998; Paris trance, traduzione di Giovanna Granato, Instar Libri, Torino 1999.

[6] Geoff Dyer, But Beautiful. A Book About Jazz, Jonathan Cape, Londra 1991; Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz, traduzione di Riccardo Brazzale e Chiara Carraro, Instar Libri, Torino 1993.

[7] Caspar Henderson, The Book of Barely Imagined Beings, Granta Books, Londra 2012; Il libro degli esseri a malapena immaginabili, traduzione di Massimo Bocchiola, Adelphi, Milano 2018.

[8] Per questa e le citazioni seguenti di David Foster Wallace: Federer as a Religious Experience, “The New York Times Magazine”, New York 2006; in Il tennis come esperienza religiosa, traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, Torino 2012.

[9] Geoff Dyer, Zona, Canongate, Edimburgo 2012; Zona, traduzione di Katia Bagnoli, Il Saggiatore, Milano 2018.

[10] Alasdair Gray, The Book of Prefaces, Bloomsbury, New York-Londra 2000.

[11] “McSweeney’s”, Vikings, Monks, Philosophers, Whores: Old Forms, Unearthed, n. 31, San Francisco ottobre 2009.

[12] Douglas Coupland, Generation XTales for an Accelerated Culture, St. Martin’s Press, New York 1991; Generazione X. Storie per una cultura accelerata, traduzione di Marco Pensante, Mondadori, Milano 2000.

[13] Jacques Derrida, Glas, Éditions Galilée, Parigi 1974; Glas, traduzione di Silvano Facioni, Bompiani, Milano 2006.

[14] Jacques Derrida, Marges de la philosophie, Les Éditions de Minuit, Parigi 1972; Timpano, saggio iniziale di Margini della filosofia, traduzione di Manlio Ioffrida, Einaudi, Torino 1997.

[15] John Maxwell Coetzee, Diary Bad Year, The Text Publishing Company, Melbourne 2007; Diario di un anno difficile, traduzione di Maria Baiocchi, Einaudi, Torino 2009.

[16] Gabriel Josipovici, Mobius the stripper. Stories and short plays, Gollancz, Londra 1974.

[17] Rebecca Solnit, The Faraway Nearby, Viking, New York 2013.

[18] Jerome K. Jerome, Three Men in a Boat (To Say Nothing of the Dog), J.W. Arrowsmith, Londra 1889; Tre uomini in barca, traduzione di Katia Bagnoli, Feltrinelli 1997.

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