László Krasznahorkai è conosciuto per i suoi romanzi impegnativi ed esistenzialisti e per la lunga collaborazione con Béla Tarr. Tuttavia, nonostante l’autore affermi il contrario, i suoi libri hanno preannunciato molto di quanto avvenuto in Ungheria negli ultimi anni.

di John McIntyre, “The Calvert Journal”, traduzione di Carlotta Spiga.

 

 

Quando due anni fa lo scrittore László Krasznahorkai disse alla televisione ungherese che l’Ungheria negli ultimi venticinque anni aveva “mostrato il suo lato peggiore”, fu un po’ una sorpresa. E questo non perché Krasznahorkai stesse commentando in maniera provocatoria la storia recente. Ma perché stava parlando in modo diretto di eventi ancora in corso, a dispetto del distacco che conserva nelle sue opere.

Tuttavia, questa apparente estraneità ai fatti reali si traduce paradossalmente in una maggiore intensità emotiva e spinge i lettori a cercare connessioni che lo stesso scrittore nega di aver seminato intenzionalmente nelle sue opere.

Infatti, quando lo studioso Paul Morton in un’intervista del 2012 per “The Millions” gli chiese se “[sarebbe] un errore vedere alcune premonizioni dell’attuale situazione politica dell’Ungheria nelle pagine del suo romanzo [Satantango]?”, Krasznahorkai rispose:

 

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Satantango, Béla Tarr.

 

“L’idea di un messaggio politico in Satantango era lontana dalla mia mente quanto lo stesso impero sovietico. Ero solo curioso di scoprire il motivo per cui tutti quelli intorno a me sembravano essere tristi come la pioggia che cade sull’Ungheria e il motivo per cui io stesso ero triste, circondato com’ero da queste persone, sotto la pioggia”.

Il poeta George Szirtes, che è dietro alla maggior parte delle traduzioni in inglese delle opere di Krasznahorkai apparse finora, mi disse che lo scrittore:

“Si rapporta con la situazione attuale in termini allegorici, come in The Last Boat e in Someone’s Knocking at My Door… I grandi romanzi… sono profetici, in un certo senso. Sono visioni e timori che riguardano l’anima della nazione, tanto dopo lo Stalinismo come ora. Ma leggendoli si comprende meglio la situazione attuale e non è affatto confortante”.

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Max Neumann

C’è in effetti qualcosa di profetico nelle opere di Krasznahorkai, si ha la sensazione che il mondo già di per sé vulnerabile possa disfarsi da un momento all’altro, possa cadere a pezzi come il volto di un lottatore dopo un colpo di troppo negli ultimi round.

Sebbene sia un errore isolare una singola opera e raffigurarla, ad esempio, come pura allegoria politica, i suoi lavori offrono una visione malinconica e impressionistica dell’Ungheria che si appresta al nuovo millennio, una serie di accenni e barlumi che si evincono dall’atmosfera che si respira nell’aria.

“Non si sbaglia mai ad aspettarsi un destino avverso nei miei libri, non più di quanto si sbaglierebbe a non aspettarselo nella vita di tutti i giorni” dice Krasznahorkai, e nell’ultimo paio di anni sempre più persone in Ungheria si sono aspettate un destino avverso. L’arrivo nel continente dei rifugiati provenienti dalla Siria ha aumentato i timori, a cominciare dallo scontro fra culture fino all’eventualità che il terrorismo possa mettere radici per mezzo dei nuovi arrivati o delle generazioni successive.

Ma mentre i mondi di Krasznahorkai sono popolati da minacce indistinte, il presidente Viktor Orbán e il suo governo hanno cercato di drammatizzare in termini viscerali le minacce, attraverso una intensa campagna di propaganda.

Il semplice numero delle persone che arrivavano, accompagnato da annunci che esasperavano i pericoli che questi individui avrebbero potuto rappresentare hanno generato il panico. È stata costruita una recinzione di filo spinato lungo i confini con Serbia e Croazia. Un rappresentante del governo ha descritto un gruppo di richiedenti asilo, molti dei quali erano donne e bambini, come “una banda armata… che usa i bambini come scudo umano”. Orbán ha dichiarato che l’intento del governo era fermare i trafficanti di uomini.

animalinsideTutto sembrava ricordare in modo inquietante un passaggio di Animalside di Krasznahorkai, una breve opera in prosa scritta per accompagnare una serie di dipinti dell’artista tedesco Max Neumann, ritraenti un feroce e massiccio cane nero a cui mancano gli arti anteriori:

“Chiudete bene i cancelli e tappate le crepe, issate le travi e tirate fuori il filo spinato, e proteggetevi da tutti i lati, ma sappiate che vi rinchiudete invano, tappate invano, issate le travi invano e svolgete invano il filo spinato, poiché quella fessura, quel solco, quell’interstizio che dovrebbe essere un ostacolo per me non è nulla; ma è proprio per questa ragione che dovreste barricare i vostri cancelli e sbarrare le vostre finestre, murare le vostre finestre e proteggervi, perché io mi libererò, e arriverò, e certo rinchiudete anche i vostri figli, e certo munitevi di molte armi, e organizzate la vostra difesa, e schierate le guardie, disponete i cordoni di sicurezza e piazzate le mine antiuomo, forza, fatelo, preparatevi, ma qualunque cosa facciate contro di me è vana… perché io sto arrivando, un giorno sarò lì, forse non in una sola forma, ma già in due o tre, o in quattro, un giorno arriverò, e dilanierò i vostri volti, perché io sono la rovina”.

Di fronte a una minaccia, è naturale avere bisogno di sicurezza e rassicurazioni; e forse una minaccia amorfa, mal ponderata e vagamente compresa può più facilmente portare a invocare un qualche tipo di salvatore, in questo caso un uomo forte come Orbán.

Krasznahorkai descrive questa dinamica in Satantango, quando gli ultimi abitanti di una fattoria collettiva fallita fanno i conti con il loro misero avvenire. Irimiás, che tutti pensavano morto, prospetterà per loro una sorte migliore. In fin dei conti, ha delle indubbie capacità retoriche e non è che loro abbiano i mezzi per tirarsi fuori da soli dalla disgrazia in cui sono caduti. Non riescono nemmeno a immaginare quali siano le sue intenzioni – è poco più di un informatore di stato – e lui pianifica di spennarli, mentre loro lo vedono come una guida. Quando il suo compare gli chiede se gli abitanti della fattoria possiedano abbastanza da valere lo sforzo del loro imbroglio, Irimiás lo rassicura che “i contadini hanno sempre qualcosa”.

Il raggiro di Orbán è diverso da quello pianificato da Irimiás: usa senza tanti complimenti la retorica del sangue e del territorio. Le sue mosse per consolidare il potere tra le fila populiste hanno sempre l’apparenza della legittimità. La questione sull’accettare o no senza l’approvazione del parlamento ungherese le quote dei migranti assegnate dall’Unione Europea è stata sottoposta a referendum nel mese di ottobre dello scorso anno. Szirtes, che nel 1956 all’età di otto anni è arrivato come rifugiato in Gran Bretagna con la sua famiglia, ha commentato senza mezzi termini il referendum:

“L’Ungheria non va troppo per il sottile, né le domande sono così semplici. Comunque sia formulato il quesito referendario, la retorica si ridurrà a: volete essere assassinati nei vostri letti? Volete che le vostre città siano conquistate da islamisti rabbiosi? Volete che le vostre donne siano molestate e stuprate? Volete che gli stranieri vi rubino il lavoro? E ovviamente – e questo sembra richiamare molto bene il nostro referendum – volete che i burocrati di Bruxelles dicano a voi, fiero popolo (ungherese/britannico), cosa fare?”.

 

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Max Neumann, Animalinside.

 

Più del 98% dei votanti ha deciso di non accettare le quote dei migranti dell’Unione Europea, anche se l’astensione di più di metà della popolazione ha invalidato il referendum su base costituzionale. Forse in qualsiasi nazione una parte del corpo politico può essere indirizzata all’odio e, una volta lì, il ritorno alla tolleranza si rivela un cammino aspro. Nonostante il referendum sia fallito, Orbán ha presentato un emendamento costituzionale per vietare l’insediamento dei rifugiati in Ungheria. Alla prima presentazione dell’emendamento, i membri d’opposizione del partito Jobbik si sono astenuti dal voto. Hanno cercato di inasprire ulteriormente le restrizioni e di eliminare la clausola che permetteva agli immigrati di comprare il diritto di residenza. Il destino dell’emendamento e, ancora di più, il destino dei rifugiati che esso intende escludere resta incerto.

Quelli che in Ungheria sono così determinati a tenere lontano i rifugiati sembrano aver dimenticato la sorte del loro cugino molto prossimo, il defunto scrittore Joseph Roth, e di quanto sia stato doloroso per lui essere esiliato dall’allora Impero austro-ungarico che amava tanto. In troppi in Ungheria sono sordi al suo lamento espresso in Sosta al cospetto della distruzione, ma di sicuro coloro che non possono tornare in Siria e non sono benvenuti in Ungheria lo comprendono:

“Ora sono seduto davanti alla piazza vuota e ascolto scorrere le ore. Si perde una patria dopo l’altra, dico a me stesso. Siedo qui con il bastone accanto. I piedi sono escoriati, il cuore stanco, gli occhi asciutti. La miseria si accovaccia al mio fianco, si fa sempre più dolce e grande, il dolore si ferma, diventa forte e benevolo, la paura avanza cantando con voce tonante e non può più incutere paura. E proprio questo è lo sconforto”[1].

 

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László Krasznahorkai

Di László Krasznahorkai sono finora comparse in Italia le seguenti opere:

Melancolia della resistenza, traduzione di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli, Zandonai, Rovereto 2013. (fuori commercio);

Satantango, traduzione di Dóra Várnai, Bompiani, Milano 2016.

 

 

 

 

 

 

[1] Joseph Roth, Im Bistro nach Mitternacht. Ein Frankreich-Lesebuch, Verlag Kiepenheuer & Witsch Koln und Allert de Lange, Amsterdam 1999; Al bistrot dopo mezzanotte. Un’antologia francese, a cura di Katharina Ochse, traduzione di Gabriella de’ Grandi, Fabrizio Rondolino, Flaminia Bussotti, Linda Russino, Adelphi, Milano 2009.

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