di George Szirtes, “The Guardian”, traduzione di Chiara Veltri.
Traduzione dall’ungherese dei versi di István Vas a cura di Andrea Rényi.

 

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Migration III, Antonio Frasconi

 

La cultura non è una faccenda puramente nazionale. Sono poeta e traduttore, e per me sarebbe inconcepibile leggere Chaucer senza essere consapevole delle figure di Dante e Boccaccio sullo sfondo, o Shakespeare senza Plutarco. O ancora, T.S. Eliot (anche lui immigrato in Gran Bretagna) senza far riferimento a centinaia di testi provenienti da altri paesi e scritti in altre lingue.

Questa forma di internazionalismo è la linfa vitale dell’arte. Non ha radici, è cosmopolita ed è un’espressione del libero pensiero.

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Nikolai Lutohin

Ho cominciato a scrivere a 17 anni in quella che, in ordine di tempo, era la mia seconda lingua, poiché ero arrivato in Inghilterra all’età di 8 anni, un rifugiato ungherese che non parlava inglese. Non sono in grado di dire quali risorse interiori avessi portato con me a quell’età, ma già allora non ero una tabula rasa. Su quella tavola era già stata scritta la storia della mia famiglia, dei miei genitori, della mia città, della mia strada e degli eventi della mia, fino ad allora breve, vita.

Ero, come chiunque altro, un palinsesto.

Le letterature della nostra particolare isola sono tante, e vengono tutte costantemente annotate e riscritte da chi arriva e da chi riparte verso altri luoghi. Tutti ci spostiamo, anche all’interno dell’isola, magari soltanto da una città all’altra. Ogni spostamento amplifica e modifica la nostra percezione dei luoghi. Le nuove annotazioni non cancellano le caratteristiche di un determinato posto: il palinsesto le espande. Anzi, la presunta stabilità di un luogo viene generata da ciò che si estende al di fuori di esso.

 

Il villaggio sa di essere un villaggio attraverso la conoscenza di altri villaggi, città e paesi. La nazione sa di essere una nazione attraverso l’incontro, non soltanto con altre nazioni, ma con il mondo. Ogni estensione è una modifica, e ognuna di esse è un altro strato del palinsesto.

Da sei anni il governo ungherese tenta di restringere la portata dell’immaginazione dei suoi cittadini creando biblioteche nazionali “patriottiche”, arte “patriottica”, cercando secondo le proprie linee di aumentare la coesione sociale e di escludere tutti coloro che considera estranei.

Questa politica blinda, esclude e ridefinisce anche i propri cittadini come leali patrioti o elementi potenzialmente ostili. Questo patriottismo non procede grazie all’amore per il proprio paese, ma attraverso l’esclusione degli altri. Tenta di definire un nucleo culturale puro che corrisponda all’Ungheria e soltanto all’Ungheria.

Prima di cominciare a tradurre dall’ungherese, nel 1984, avevo già scritto alcuni libri di poesia in inglese.

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George Szirtes

Ho tradotto narrativa, poesia e teatro, perché mi è stato chiesto e anche perché mi affascinava vedere cosa sarebbe successo trasferendo un’opera scritta in una lingua in un’altra. Cosa succede quando una poesia, per esempio di Ágnes Nemes Nagy, entra nella sfera di un’altra lingua? Cosa succede a narrazioni ambientate in luoghi poco familiari, come la Budapest che si vede in Anna édes di Dezsö Kosztolányi?

Come può un’opera tradotta essere uguale e al contempo differente? Questa domanda si ripresenta in modo ossessivo riguardo non soltanto alla traduzione ma anche alla migrazione.

In che misura siamo diversi gli uni dagli altri, e in che misura siamo uguali, soprattutto quando le nostre origini e il nostro retroterra differiscono in modi tanto marcati? Ecco qual è il punto.

Le opere degli scrittori stranieri non parlano soltanto di “loro”. Parlano anche di noi.

Quando ho cominciato, in Gran Bretagna non c’erano molti scrittori ungheresi in circolazione. L’idea nazionale degli ungheresi è che la letteratura sia il grande tesoro nascosto del paese, che nessun’altro può conoscere a causa della presunta difficoltà della sua lingua. Ci sono tante cose che non sappiamo degli altri, ma l’ignoranza è tutt’altro che beata: è una forma di compiacimento e di pregiudizio.

Ted Hughes, che insieme a Daniel Weissbort fondò la rivista Modern Poetry in Translation, fu molto influenzato dal poeta ungherese János Pilinszky, che tradusse, e dal poeta serbo Vasko Popa, che gli fornì un modello per la sua raccolta Crow, del 1970. La libera circolazione di esperienze e sensibilità crea nuove opere, nuove forme di comprensione.

La mia attività di traduzione ha riguardato principalmente le opere di Sándor Márai (l’autore di Le braci) e László Krasznahorkai (che ha scritto tra gli altri Satantango).

Sono entrambi scrittori di statura internazionale che descrivono mondi che non conosciamo direttamente ma percepiamo come possibilità, come versioni della verità, dentro di noi. Che ci rivelano a noi stessi.

I miei viaggi da scrittore mi hanno portato in tanti paesi. In tutti, ci sono tante cose uguali e tante cose diverse. Siamo in costante contatto gli uni con gli altri attraverso le comunicazioni, il commercio, le culture condivise, i legami politici ed economici. Ho collaborato con traduttori da molte lingue. Due estati fa ho tenuto un corso di traduzione a cui partecipavano studenti provenienti dal Bangladesh, dal Giappone, dalla Francia, dall’Italia e dalla Polonia. Abbiamo imparato gli uni dagli altri non solo modi di scrivere, ma anche modi di vedere, persino di essere.

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Szántó Piroska, Vas István.

Il poeta ungherese István Vas ha scritto una poesia intitolata Il ringraziamento del traduttore. La compose in un periodo buio, negli anni Cinquanta, quando non gli era consentito pubblicare le sue opere, ma soltanto traduzioni. Nella poesia descrive come le parole degli altri lo abbiano liberato. “Traducevo l’impero del terrore di Nerone / E davanti a me scorreva l’odierno”, scrive, e prosegue:

 

Grazie a voi vedo fuori dalla mia prigione,

E posso affidare il mio messaggio a voi,

Giganti rassicuranti e bonari.

 

Qualsiasi cosa possano dire alcuni politici, siamo cittadini del mondo, che lo ammettiamo o no. Consumiamo e viviamo ciò che in passato ci era estraneo e quando chiudiamo porte e finestre cominciamo a soffocare.

I termini con cui è stato condotto il referendum per la permanenza nell’Unione Europea sono andati ben oltre il normale dibattito sulla libera circolazione delle persone, che si tratti di rifugiati o di lavoratori poveri in cerca di una vita migliore. Hanno fatto emergere l’ostilità latente nei confronti degli stranieri e l’hanno sfruttata, un’ostilità che dal momento del voto è soltanto cresciuta. E tutto questo può portare a ben più che a una mancanza d’aria. 

È una forma di aridità che diventa infiammabile. E bastano poche scintille. Le condizioni necessarie per la combustione sono già presenti in Gran Bretagna e in altre parti dell’Europa, in particolare nella regione in cui sono nato, e – soprattutto adesso – negli Stati Uniti di Trump.

L’isolazionismo e il patriottismo sono in ascesa, in parte in forma di atti politici, in parte al livello dell’umore della società, esacerbato con ogni mezzo per ragioni politiche.

Basta far cadere scintille a sufficienza sul terreno arido per far scoppiare un incendio. Ne abbiamo già visti di simili in passato. La vista fuori dalla prigione, per dirla con Vas, è vitale: ancora meglio sarebbe uscire dalla prigione, andare nel mondo rigoglioso e diventarne cittadini.

 

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